Palazzo Madama chiude per lavori di sanificazione dopo il contagio conclamato di due senatori in piena attività di relazioni sociali e scambi umani. Alla Camera non si raggiunge il numero legale per approvare la risoluzione di maggioranza sulla relazione in aula del ministro della Salute Roberto Speranza. Le opposizioni festeggiano, interpretando l’evento politicamente, come fosse una crepa nella granitica coesione della maggioranza, magari con una lettura che incrocia i tormenti dei Cinque Stelle, in fase pre-implosiva. Ma, a parte che, se i pentastellati dovessero scindersi, non andrebbero a segare il ramo del governo dove è seduta la legislatura, l’opposizione lo sa pure lei che la politica non c’entra con il “diradamento sociale” dei deputati che mancano all’appello. Nossignori. C’entra la paura.
Tra le nuove vittime del Covid c’è pure (sembra la nemesi delle mitologie greche) l’ex ministra della Salute Beatrice Lorenzin che raccomanda dai giornali di tenersi lontani dal virus perché – esperienza personale – è proprio una cosa brutta. Dunque dopo Boris Johnson, Donald Trump, Bolsonaro, Alberto di Monaco e una quantità di ministri e nobiluomini della politica mondiale (e, per restare nel nostro, dopo Zingaretti e altri minori), il morbo attacca la “casta” espugnando addirittura i “Palazzi” che la simboleggiano.
Umana, troppo umana la reazione degli abitanti di Montecitorio che, essendosi da tempo accomodati nel rango di “portavoce” del popolo, come si addice ad un’assemblea rivoluzionaria, ne riproducono pedissequamente i vizi e le virtù, abbandonando l’eroismo della rappresentanza. Insomma: teniamo famiglia!
In verità nel mese di giugno si era aperto un dibattito piuttosto animato sulla richiesta avanzata da un certo numero di parlamentari di votare in aula “da remoto”. Si aprirono webinar con la partecipazione di accademici per stabilire se la cosa fosse fattibile oppure no. Poi il presidente Roberto Fico, con una decisione coerente con l’impianto della nostra Costituzione, chiarì che non c’era trippa per gatti: il voto da casa proprio no per i deputati (e i senatori). In punta di diritto: l’articolo 64 comma 3, della Costituzione, per ben due volte fa esplicito riferimento alla presenza dei parlamentari intesa come presupposto per la validazione della deliberazione in Parlamento. Non si tratta di un ornamento all’articolo, ma di una prescrizione precisa.
È vero, eravamo nel 1948 e non c’era ancora il collegamento da remoto via computer, ma esisteva il telefono, esisteva la lettera, esisteva il telegramma, esistevano strumenti altri – la delega – attraverso i quali i parlamentari avrebbero potuto, se fosse stato previsto in Costituzione, esprimere il loro orientamento nella decisione di voto. Ma il Costituente non volle prevedere altre forme diverse dalla presenza, sottolineando il ruolo centrale dell’Aula come luogo fisico del confronto, della formazione dell’opinione e della scelta finale attraverso la deliberazione. E l’ha fatto scientemente, perché quando ha voluto prevedere forme diverse di manifestazione della volontà fuori dall’orizzonte delle tecnologie conosciute all’epoca, non ha mancato di considerare spazi evolutivi eventuali, come quello dell’art. 15 (inviolabilità della corrispondenza) che apre una finestra sulle tecnologie che all’epoca non erano previste ma che sarebbero potute intervenire un domani.
Dunque l’onore di rappresentare il popolo comporta anche un pizzichino di eroismo e il disagio di una mascherina. Comporta che il munus (che, giustamente, si addice a un parlamentare) porti con sé anche qualche onere in più.
E allora, a meno di non cambiare anche questo in Costituzione, per fare un po’ di smart working in Parlamento, mi sa che il voto bisognerà darlo “di persona pirsonalmente”. Come dice il sommo Catarella.