Il Recovery Fund è una grande opportunità per il capitale umano. Per coglierla occorre un nuovo patto tra pubblico e privato basato sulla trasparenza, così da rendere il Paese in grado di metabolizzare un ritmo di innovazione tecnologica sempre più elevato. Dall’ultimo numero di Airpress, la riflessione di Roberto Cingolani, chief technology & innovation officer di Leonardo
Digitalizzazione e formazione al cambiamento: da qui passa il rilancio del Paese. L’esigenza più forte è avere un’Italia digitale, immaginando un programma ambizioso dedicato per un terzo alle infrastrutture e per due terzi a grandi progetti di digitalizzazione. Significherebbe creare prima di tutto un’infrastruttura digitale completa, dal super-calcolo al cloud, dal 5G alla cyber-security, dall’applicazione dell’intelligenza artificiale alla manifattura fino alle reti.
Altro passo necessario è il lancio di programmi innovativi, come la digitalizzazione della pubblica amministrazione o la sorveglianza delle infrastrutture (edifici, ponti o beni culturali) secondo il concetto di global monitoring surveillance in cui si integrano le reti di sensori, telecamere e satelliti, e si sfrutta la grande quantità di dati per verificare, ad esempio, lo stato di erosione delle coste o le condizioni dei siti archeologici. Per il settore aeronautico, la disponibilità di infrastrutture digitali permetterebbe progetti ambiziosi su simulazione, controllo e manutenzione predittiva, certificazione o digital twin per i motori. Vista la trasversalità della digitalizzazione, ciò vale per ogni comparto, dall’automotive alla farmaceutica. Il tutto potrebbe avere una dotazione di 40 miliardi di euro, non perché bastino, ma perché sembra giusto dedicare il 20% dei 209 miliardi del Recovery fund a questa grande trasformazione. D’altra parte, si tratterebbe di un programma ben difendibile a livello europeo, con progetti strategici per la crescita del Paese che difficilmente incontrerebbero il “no” di Bruxelles.
La seconda grande sfida è nella riforma del comparto ricerca e istruzione, per cui il Recovery fund si presenta come una grande opportunità dedicata al capitale umano. Immaginiamo di poter realizzare con un colpo di bacchetta magica il piano di trasformazione digitale: dove troviamo gli sviluppatori? È come avere automobili da Formula 1 senza disporre dei piloti. È necessario dunque immaginare un piano che coinvolga le scuole e le università, abituando i più giovani ad avere dimestichezza con il linguaggio digitale sin da elementari e medie. Per l’università occorre guardare all’interdisciplinarietà. Serviranno ad esempio sempre più esperti di etica e sistemi regolatori per l’intelligenza artificiale: arrivano da ingegneria o da giurisprudenza? Probabilmente da tutte e due, ma oggi questo non è possibile.
Negli ultimi 150 anni diverse tecnologie hanno trasformato la nostra società e il modo di fare industria, ma lo hanno fatto con tempi diversi. La televisione ha impiegato quarant’anni per entrare nelle case del 25% del popolo americano; la radio trenta; il Pc venti; mentre Internet ce ne ha messi solo cinque. E così, se in passato un lavoratore viveva una sola discontinuità in termini di innovazione tecnologica durante la propria vita lavorativa (consideriamo quarant’anni), oggi ne potrebbe vivere otto. Ma se una sola discontinuità dà tempo e modo per poter essere metabolizzata tra corsi di aggiornamento e formazione, otto impongono un cambiamento di paradigma, un nuovo modello che permetta al sistema formativo, alle aziende e alla pubblica amministrazione di poter assorbire il ritmo elevato del cambiamento.
Una recente indagine del World economic forum incentrata su cento multinazionali ha riscontrato che per il 65% di esse il primo problema è l’incapacità di comprendere e seguire il cambiamento in tempo reale. Il problema è come poterlo affrontare come Paese. È evidente l’esigenza di porre in atto strategie di mitigazione del rischio, cercando di salvaguardare i lavoratori con una poderosa operazione incentrata sull’accordo tra pubblico e privato. Significa avere una società in aggiornamento continuo, ma anche essere in grado di realizzare ingenti investimenti sulla formazione delle nuove generazioni perché sia più flessibile a intercettare il cambiamento. Fino a trent’anni fa scuola e università permettevano di avere competenze sufficienti per tutto l’arco della vita lavorativa. Ora la stessa formazione è sufficiente a coprire i primi anni. Per questo serve una visione di lungo periodo, basata sulla trasparenza (perché del lavoro si perderà) e sull’alleanza tra le varie componenti del Paese (perché altro lavoro si crei in fretta).
Ne è esempio il Leonardo Drone Contest, un progetto sviluppato dall’azienda in collaborazione con sei atenei italiani per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale applicata ai sistemi senza pilota. L’iniziativa nasce da un patto tra pubblico e privato, tra industria e accademia, componenti che conservano prerogative diverse ma condividono il capitale umano, benzina della nostra società. Con la scusa di una gara bonaria, il Drone Contest investe sull’intelligenza, compresa quella artificiale, intesa come la capacità di ragionare e connettere tematiche diverse. Pone dei problemi e chiede a menti brillanti, supportate da docenti, di risolverli. Mette così a frutto le capacità dei giovani, fornendo loro infrastrutture e mettendo a fattor comune la sensibilità dell’azienda (cioè fare Pil) con la sensibilità del ricercatore (cioè creare conoscenza). Immaginiamo una società che funzioni come un contest, in cui i problemi si affrontano insieme attraverso gare non competitive di idee. Sarebbe una società di pace, collaborativa, capace di far crescere il Paese e di affrontare le sfide della digitalizzazione. Poi magari, tra vent’anni, di fronte alle tecnologie quantistiche, scopriremo che il digitale sarà già diventato un dinosauro. Ma almeno saremo pronti ad affrontare un nuovo cambiamento.