Mai come questa volta i nostri politici sono afoni, dando quasi l’impressione di essere poco interessati a quel che accadrà dopodomani oltreoceano
Sarà perché il Covid è diventato il tema unico, o quasi, dell’agenda politica italiana. Sarà perché le forze politiche non hanno più visione e strategie ma pensano solo a come incamerare qualche piccolo vantaggio momentaneo. Sarà perché, in conseguenza, non amano sbilanciarsi sapendo che l’esito della consultazione è tanto incerto quanto non mai. Fatto sta che mai come questa volta i nostri politici sono afoni, dando quasi l’impressione di essere poco interessati a quel che accadrà dopodomani oltreoceano.
Nonostante che la sfida americana, essendo fra due idee opposte di nazione, come l’ha definita Maurizio Molinari, chiami questa volta in causa direttamente chi come noi è a sua volta diviso da fratture interne che a tutta prima non sembrano facilmente componibili.
Matteo Salvini, qualche giorno fa, si è presentato a una manifestazione della Lega con una mascherina promozionale di Donald Trump inviatagli da un amico americano. E ha detto che si augura una riconferma del magnate che si è dato il compito quattro anni fa, proprio come ha fatto lui in Italia, di dar voce a quell’Unforgotten Man vittima delle élite al potere.
Ma non ha aggiunto altro, né ha usato l’enfasi che normalmente riserva ad altri argomenti. Il “minimo sindacale” è senza dubbio una scelta tattica, ma è innegabile che, anche se parte di una comune tempera politica, il “sovranismo” trumpiano non si è mai incontrato con quello salviniano.
Come dimostrano i tentativi falliti di trovare un appoggio oltreoceano che invece, almeno nel mondo conservatore americano che fa da base più o meno convinta al trumpismo, Giorgia Meloni ha trovato con relativa facilità. Ma anche dall’altra parte, a sinistra, l’appoggio a Joe Biden viene dato come scontato ma non impegna più di tanto l’animo dei politici italiani.
Passerelle come quelle organizzate da Matteo Renzi che si fece invitare a cena da Barack Obama insieme ad altri “italiani eccellenti” prima delle precedenti elezioni, e che portò sfortuna dopo qualche settimane sia all’uno che all’altro, in questa occasione non se ne queste non sono viste.
E anche l’ala più “americana”, o “atlantista” del Partito Democratico al governo, quella che va da Lorenzo Guerini a Vincenzo Amendola, insiste più sui motivi di continuità che ci sarebbero nel caso vincesse l’uno piuttosto che l’altro concorrente che non sul contrario.
La battaglia ideologica, quella che incendia le piazze d’America, e che divide l’opinione pubblica e gli americani, è lasciata ai media, che sono tutti o quasi dalla parte di Biden e non esitano a dipingere Trump con toni macchiettistici o preoccupati, al di là di ogni seria analisi.
Un caso a sé è invece Giuseppe Conte, costretto come sempre a barcamenarsi fra esigenze opposte: da una parte, l’amicizia e la gratitudine per Trump, che gli dette una forse troppo affrettata “benedizione” quando nacque il governo giallorosso. Dall’altra, l’anti-trumpismo viscerale anche se in questo momento non espresso dei democratici e anche del nostro deep state (e di quello europeo).
Fra l’altro, nei Cinque Stelle l’anti-trumpismo sembra diventare tout court anti-americanismo e quindi rischia spesso di compromettere i nostri storici rapporti con l’alleato d’oltre Atlantico. Perché una cosa è certa: vinca Biden o sia riconfermato Trump, alla Cina, e ai suoi “amici” europei, gli Stati Uniti non sono più propensi a fare sconti di sorta. La posizione giusta per un Presidente del Consiglio sarebbe certo quella di non schierarsi, ma non per calcoli politici bensì per rispetto dell’alleato. Sarebbe la solo “ambiguità” accettabile, non certo quella che a volte sembra assumere il nostro atteggiamento e comportamento nel contesto internazionale.