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Italia spiata dal Pcc? Ecco cosa (non) ha risposto il governo

Il governo ha risposto a un’interrogazione della Lega spiegando che gli impiegati cinesi assunti (seguendo le leggi di Pechino, un’eccezione!) dai consolati italiani non hanno accesso a documenti classificati. Ma qualche interrogativo rimane…

Prima i chiarimenti chiesti dall’europarlamentare leghista Marco Dreosto. Poi l’invito avanzato su queste pagine dal deputato dem e membro del Copasir Enrico Borghi ad assumere le “necessarie contromisure”. Ora le rivelazioni di Formiche.net sulla presenza di un iscritto al Partito comunista cinese nella macchina diplomatica italiana (si tratta di un contrattista che dal 2008 lavora presso il consolato generale d’Italia a Shanghai) sono diventate materia di discussione in commissione Esteri della Camera.

Oggi, infatti, il governo ha risposto a un’interrogazione urgente presentata dalla Lega (primo firmatario Eugenio Zoffili) circa le “misure” da “assumere per evitare ulteriori infiltrazioni del Partito comunista cinese nella rete diplomatico-consolare italiana attiva nella Repubblica popolare cinese”.

Per l’esecutivo è intervenuta Marina Sereni, viceministra degli Esteri, illustrando le modalità del reclutamento di personale a contratto da parte delle rappresentanze diplomatico-consolari. Nel caso di assunzione di personale di cittadinanza cinese, “il reclutamento avviene tramite una procedura richiesta dalla legislazione locale che vincola tutte le rappresentanze diplomatiche-consolari straniere accreditate presso la Repubblica popolare cinese”, ha spiegato. “La necessità di assumere un’unità di personale deve essere segnalata, tramite nota verbale, al competenze Dipartimento dei servizi alle agenzie straniere”. Nel caso in esame, lo Shanghai Foreign Agencies Service Department, che, “tenendo conto dei requisiti indicati, propone una rosa di candidati che il consolato generale seleziona ricorrendo a procedure semplificate”, ha aggiunto la viceministra.

Che poi ha ritenuto “opportuno precisare”, “tenuto anche conto della specifica legislazione cinese”, che “gli impiegati di cittadinanza cinese” reclutati come detto “non possono in nessun caso e in alcun modo avere accesso a documentazione classificata”. Inoltre, ha aggiunto la numero due della Farnesina, “le limitazioni dell’accesso del personale a contratto alle informazioni non strettamente necessarie allo svolgimento delle loro funzioni e alle aree riservate rientrano tra le responsabilità del capo missione e seguono regole precise che vengono regolarmente verificate e ribadite in occasione delle visite ispettive”.

Nelle scorse ore il consolato generale di Shanghai ha confermato a Formiche.net che il funzionario individuato dagli Shanghai Files come iscritto al Partito comunista cinese (di cui, come già detto, conosciamo il nome ma preferiamo non divulgarlo) ancora “lavora come contrattista” presso la rappresentanza.

Riconoscendo, come ha evidenziato Foreign Policy, che “trattare l’iscrizione al Partito comunista cinese come un segno di lealtà allo Stato è ambiguo” e che la stessa è spesso utilizzata per imbellettare, rimangono tre interrogativi ancora senza risposta. Primo: il governo era a conoscenza dell’iscrizione del funzionario al Partito comunista cinese? Secondo: essendo gli Shanghai Files stati sottratti dai dissidenti nel 2016 e relativi alla sola città di Shanghai, esistono altri casi simili nelle altre sedi della diplomazia italiana? Terzo: il fatto che sia prevista una procedura ad hoc per il reclutamento di impiegati di cittadinanza cinese — un’eccezione, come spiegato dalla viceministra Sereni — non rappresenta forse un campanello d’allarme?



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