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Dal non-partito agli Stati Generali. Le 5 Stelle mutanti viste da Ceri e Veltri

Di Francesca Veltri e Paolo Ceri
Beppe Grillo, co-founder of the Five Star Movement

Lungo un percorso evolutivo di oltre dieci anni, il Movimento 5 Stelle è passato dal rifiuto delle alleanze a due governi di opposto colore politico, fino ad arrivare agli Stati Generali per scegliere una organizzazione interna più strutturata. Ecco a che punto si trova M5S nell’analisi di Paolo Ceri e Francesca Veltri, autori di “Il movimento nella rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle” (2017, Rosenberg & Sellier)

Pochi mesi dopo le elezioni del 2013, che consacrano il Movimento 5 Stelle primo partito italiano per numero di consensi, Beppe Grillo pubblica nel suo blog una canzone ispirata a “Destra e Sinistra” di Gaber, il cui ritornello recita: “L’ideologia, l’ideologia / non credo ancora che ci sia”.

Propria del “non-partito” creato nel 2009 da Gianroberto Casaleggio e Grillo è la “non ideologia” (né di destra né di sinistra) – intesa a massimizzare il consenso elettorale. Cosicché nel 2018, un calcolo realistico sostituisce al divieto di alleanze la disponibilità a stringerne sia a destra che a sinistra: estrema flessibilità giustificata dal credo salvifico nella democrazia diretta. Nel M5S non è importante infatti cosa si decide, ma come lo si decide. A fare legge e a dettare la linea è, o si dichiara essere, la maggioranza degli iscritti, rigorosamente online (le assemblee nazionali di tipo fisico restano un tabù fino agli Stati Generali del 2020), su una piattaforma di voto nata nel 2012, e che dal 2016, implementata con altre attività, è tenuta a battesimo con il nome di Rousseau. Agli iscritti è richiesta totale fiducia nel gestore della piattaforma, la Casaleggio Associati. Dall’esterno non è possibile conoscere il numero di votanti né di voti ricevuti dalle alternative di volta in volta proposte, se non attraverso i comunicati dell’azienda in questione. Non si tratta di ipotizzare o sospettare manipolazioni, ma di non poter escluderne con certezza l’esistenza. D’altra parte, come Grillo ha ripetuto in più di un’occasione, nessuno costringe gli iscritti a restare, se non condividono le modalità in uso nel partito. Se restano le accettano, in un implicito patto di silenzio/assenso. A un potere virtualmente assoluto del gestore della piattaforma, ha fatto per anni da contrappeso quello esercitato attraverso il possesso del marchio da Beppe Grillo e dall’associazione Movimento5stelle.

Nel corso del 2020, le tensioni interne al “non-partito” sembrano aver imboccato una spirale in crescendo, che rischia di condurlo all’auto-implosione. I contrasti e le divisioni interne cui è solitamente soggetta una forza politica, sembrano accentuarsi in un partito che si vuole ideology-free. Ancor più se ribalta le alleanze, come il M5S ha fatto, passando da un governo con la Lega a uno con il Partito democratico. È a questo punto che lo scontento e le divisioni all’interno del partito si esasperano, fino a costituire un pericolo per la tenuta della maggioranza.

La crisi interna al M5S è in realtà di vecchia data. Non diversamente da altre forme associative nate secondo dinamiche carismatiche e (in parte) di movimento, esso è stato soggetto, soprattutto nelle prime fasi, a fenomeni di disaffezione e delusione, seguiti da contenute rotture. Nel caso del M5S, la partecipazione diretta alla vita parlamentare è segnata fin dall’inizio da una contraddizione strutturale. I suoi eletti si trovano a esercitare ruoli di parlamentare politicamente vincolati al mandato imperativo, in un contesto in cui vige il divieto costituzionalmente sancito di mandato imperativo. Di conseguenza sono esposti alle tensioni e ai conflitti morali propri del contrasto tra portavoce e rappresentante, tra delega e autonomia. Sono tensioni e conflitti che si aggiungono, acuendoli, a quelli tipici dell’eletto in genere, preso tra fedeltà al gruppo parlamentare e giudizio personale. Vi è poi il cronico scontento legato al deficit di confronto democratico, cioè alle limitazioni poste al dibattito entro e tra i due gruppi parlamentari. Uno scontento aggravato dalla percezione diffusa tra i deputati e i senatori del proprio declassamento rispetto al potere decisionale degli iscritti alla piattaforma Rousseau, ad essi in grandissima parte ignoti.

Soltanto la magia del miglior Grillo riuscirebbe, se non a saldare le fratture, a smorzare invidie, rivalità e dissensi. La realtà è però tutt’altra. Non si tratta tanto d’aver assunto Grillo – pur influente, persino decisivo in passaggi strategici come la formazione del secondo governo Conte – una posizione laterale, quanto d’esser diventata oltremodo controversa la posizione di Casaleggio figlio. Dei due fatti – il Grillo defilato e il Casaleggio controverso – è soprattutto il secondo a far problema: a essere assieme il precipitato e l’acceleratore della crisi. Ne è il precipitato perché molte delle dinamiche su indicate si annodano al vertice, cioè nel principale centro di controllo: la presidenza della piattaforma Rousseau. Ne è, paradossalmente, l’acceleratore in ragione della debolezza di chi lo occupa. Per capirlo basta il confronto di due scenari: quello ante e quello post mortem di Gianroberto Casaleggio. Nel primo la diarchia al vertice del M5S è costituita da leader carismatici – provvisto di carisma originario l’uno, di carisma acquisito l’altro; nel secondo scenario, l’attuale, chi detiene il controllo del M5S non ha sufficiente legittimità sostanziale ed è privo del carisma che solo potrebbe compensarla. In una simile situazione è inevitabile che, man mano che la crisi si acuisce, il potere privo di autorità si riveli nudo agli occhi di un numero crescente di eletti e attivisti. Se ciò accade, come accade, le divisioni tra le fazioni e la competizione per la leadership riflettono i legami di fedeltà e sudditanza personalmente attivi o non con i vertici.  Quella tratteggiata è la condizione nella quale Il Movimento Cinque Stelle si è disposto ad affrontare, a metà novembre 2020, la prova degli Stati Generali.

L’espressione Stati Generali, già usato da Conte in occasione degli incontri con le parti sociali nel giugno 2020, evoca dinamiche da Ancien Régime più che quelle della democrazia partitica, dando l’idea di evento stra-ordinario, un’opportunità offerta dall’alto e non pianificata da regole decise collettivamente. Per la prima volta il M5S attiva una partecipazione a più livelli, a partire dal vituperato (in precedenza) livello provinciale, per giungere, con numeri via via più contenuti, al livello nazionale. Sembrerebbe profilarsi un embrione di struttura che Casaleggio Senior aveva sempre rifiutato, così da evitare la temuta trasformazione del Movimento in partito. Fino alla morte del co-fondatore, il M5S mantiene infatti un’organizzazione centralizzata e pressoché totalmente virtuale, dunque dipendente dal gestore della piattaforma.

Gli Stati Generali si concludono con il voto online del dicembre 2020, che di fatto ancora una volta affida la gestione dei dati e delle operazioni di voto alla Associazione Rousseau, presieduta da Davide Casaleggio. Se ciò sia dovuto al timore di scissione, di crisi di governo o altro, Davide Casaleggio sembrerebbe così aver conservato un controllo. Senonché, diventando collegiale il ruolo di capo politico, la direzione oligarchica potrebbe offrire un più forte contrappeso all’azienda, a condizione, improbabile, che possa agire contenendo i propri conflitti interni. Merita inoltre notare come i votanti chiedano di costituire sedi fisiche locali, un primo timido tentativo di sottrarsi al virtuale, il cui controllo sfugge tanto agli iscritti quanto agli eletti. Cosa aspettarsi dal futuro è difficile dirlo, anche perché resta in sospeso l’interrogativo: cosa farà nel mutato scenario Beppe Grillo, simbolo identitario del M5S?

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