“Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta”
Paul Valéry
Il vaccino per la salute sta iniziando ad arrivare ma per il vaccino dell’economia ci vorrà ancora molto tempo. Perché, in Italia e non solo, la seconda ondata del Covid ha superato le prospettive più negative. Oggi abbiamo filiere manifatturiere che sono molto rallentate, alcune addirittura ferme, i servizi ancora peggio.
Se pensiamo che il 30% del nostro PIL è fatto dalle esportazioni e i mercati globali sono quasi in lockdown, ci rendiamo conto che si tratta di una crisi asimmetrica globale. Asimmetrica perché alcuni settori, come logistica, tecnologia, farmaceutico e alimentare per la GDO, guadagnano. Altri come turismo, commercio, ristorazione e servizi professionali sono fragilissimi e spesso a rischio chiusura, come purtroppo sta già succedendo.
Tutte le analisi e gli approfondimenti dei principali Istituti di ricerca raccontano che oltre la metà di partite iva e imprese sotto i 19 dipendenti (il 99% delle 4,3 milioni totali in Italia) prevede una crisi di liquidità per far fronte alle spese che si sono presentate fino alla fine del 2020. Molti non riapriranno.
Ecco perché la necessità più urgente rimane comunque la liquidità in due modalità diverse: aprire i rubinetti del credito e, allo stesso tempo, capire come non drenarla inutilmente con cartelle esattoriali magari giuste ma che, in questo momento, non potrebbero essere onorate. Perché se una partita iva chiude o un’impresa porta i libri in tribunale, si distrugge capacità produttiva e occupazionale oltre a quella fiscale che ne deriva.
Senza dimenticare che il rischio è quello di una terza ondata. Si sta provando a fermarla ma il problema è che non esiste una relazione concreta e pragmatica tra ristori, regioni dai diversi colori ed evoluzione della situazione pandemica. Siamo in una fase in cui non si capisce niente anche perché quando una regione passa da rossa o arancione a gialla, si rischia di non prendere nulla.
Partiamo da un presupposto strategico: i ristori andavano progettati in modo diverso. Andavano dati (teoricamente) a tutti basandosi su logiche semplici. Ad esempio, tutte le partite iva chiuse totalmente o parzialmente lo dovevano ricevere al di là del fatturato perso. Se poi non ne avessero avuto più diritto in base ai parametri, lo avrebbero restituito con la dichiarazione successiva. Succede già normalmente nel caso dell’anticipo della Naspi che viene dato ai disoccupati che vogliono aprire una partita iva. Non si poteva fare la stessa cosa con i ristori?
E poi non bisognava ragionare di codice Ateco ma di filiera. Invece, per questa mania sanzionatoria che etichetta – a prescindere – alcuni come evasori e tanti altri in numerosi modi negativi, si stanno sostanzialmente punendo un insieme di professioni e di partite iva – giuridiche e personali – che stanno subendo impatti devastanti sul business, ma che non possono essere ristorate. Ad esempio, se un tributarista ha nel portafoglio come clienti ristoranti o hotel che hanno perso il 90 per cento del fatturato 2020 e non ha business conseguente, perché non deve essere ristorato?
Anche perché, come ipotizza il Centro Studi di Confassociazioni, sono a rischio di chiusura tante imprese principalmente quelle della fascia micro che hanno mediamente tra zero e 9 dipendenti. Stimiamo che perderemo almeno tra il 15 e il 20 per cento delle nostre 4,3 milioni di imprese. Saranno di meno? Fissiamo a 500.000, una stima molto prudente, il numero delle imprese italiane che potrebbero cessare l’attività a fine pandemia. Con una semplice moltiplicazione, considerando 500.000 imprese chiuse per una media di 3 dipendenti ognuna (anche qui una stima prudente), si avrà la perdita di almeno 1,5 milioni di posti di lavoro.
Fino al 31 marzo questo sistema è congelato dal blocco dei licenziamenti. Ma dopo cosa succederà? Un dramma economico e sociale: partite iva e imprese chiuse, sovraccarico di Naspi e reddito di cittadinanza, scarsissime prospettive di ricollocazione perché nessuno ha pensato per tempo alle politiche attive per il lavoro. Il medio evo prossimo venturo.