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Consultare non è concertare

Non è una semplice questione lessicale: parlare di consultazione, e non più di concertazione (come è accaduto dai tempi del governo Ciampi), è come passare dalla notte al giorno. Abbandonando un luogo comune divenuto esiziale per l’economia nazionale e precisando che un governo, per dare soluzione a gravi problemi strutturali del paese, può ricorrere a consultare le parti sociali senza, però, farsi condizionare dai lacciuoli delle concertazioni obbliganti e lasciarsi ingarbugliare in infinite mediazioni che possono concludersi senza nulla di fatto, il presidente Monti è come se avesse optato per una concezione copernicana, archiviando quella tolemaica.
 
Restare nell’ambito delle pretese rigoriste di Confindustria e di quelle più retrive della Fiom, costituiva una esercitazione defatigante quanto improduttiva per le mediazioni governative: troppi interlocutori, nessuna soluzione innovativa e trasformatrice. Scegliere un’altra via, la consultazione, che non è per niente la più semplice, ma resta, già di per sé, come una modalità concreta di procedere secondo una volontà di cambiare la struttura del lavoro assumendo la responsabilità propria dell’organo di governo, può fare uscire l’Italia dalle strette di antagonismi anacronistici.
 
Come finirà? Vedremo. Mantenendo, integre, le riserve su un governo «strano» (definizione dello stesso Monti), che dice di voler governare e non soltanto galleggiare nelle acque infide dell’economia finanziaria, è giusto apprezzare il cambio di marcia. Che non è formale, ma appunto sostanziale: lavorare alla luce del sole e non più nelle tenebre di trattative infinite, mortificanti, inconcludenti.

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