Dagli inizi nella sua Racalmuto agli altari della letteratura italiana, Lorenzo Mondo, già vicedirettore e critico letterario de La Stampa, a cent’anni dalla nascita racconta il suo amico Leonardo Sciascia, “genio eretico”
A cent’anni dalla nascita (a 31 dalla morte), la commemorazione di Leonardo Sciascia non ha nulla di rituale, e non può confinarlo nell’universo un poco asettico di certi classici.
Perché questo scrittore continua a interrogarci, in modo tagliente e quasi febbrile, sul Paese e sul mondo in cui abitiamo. Coltivando una letteratura che, non venendo meno ai suoi imprescindibili valori, appare inseparabile dalla passione civile.
Era nato in una famiglia di solfatari a Racalmuto, in quel di Agrigento. Era diventato maestro di scuola ed a questa esperienza si ispira il suo primo libro, “Le parrocchie di Regalpetra”. Dove la disposizione saggistica si contamina con una forte spinta narrativa. E sempre in lui anche il pamphlet, la riflessione morale, il saggio storico tenderanno a sciogliersi in racconto.
La sua scrittura si muove in due direzioni: da una parte la Sicilia, gravata dal sottosviluppo, dalla corruzione, dalla mafia; dall’altra la Sicilia del passato in cui rintracciare l’origine dei mali presenti e qualche lampo di ribellione, di risentimento civile.
Sul primo versante si collocano “Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo”; sul secondo, “Il consiglio d’Egitto” e “Morte dell’inquisitore”. Ma i protagonisti si somigliano tutti. Il capitano Bellodi e il professor Laurana che vanno a sbattere, con esiti diversi, contro l’omertà e l’impermeabilità della mafia.
Paolo Di Blasi, che paga con la decapitazione il sogno di una rivoluzione giacobina e fra Diego La Matina, che abbatte con la sue stesse catene l’inquisitore che lo ha condannato al rogo. De Blasi, protagonista del “Consiglio d’Egitto (che è il solo vero romanzo di Sciascia e forse il suo capolavoro) proietta la sua luce su varie figure che appartengono a un’area in senso lato illuministica: hanno vivissimo il culto della ragione e della tolleranza, non accettano che la ragion di Stato possa mai prevalere sull’uomo.
Voltaire sì, citatissimo da Sciascia, che non accoglie tuttavia la sua ironica leggerezza, perchè i suoi personaggi sono votati per lo più alla sconfitta (come i malinconici eroi di Stendhal).
Va affermandosi intanto quella che diventerà una costante dello scrittore, e cioè il ricorso al romanzo giallo. Che vale anche per le prove più propriamente saggistiche, dove l’eroe della “detective story” è lo stesso autore, che accumula indizi e prove, di ordine storico e filologico, per strappare alla coltre del luogo comune e dell’impostura un lembo di verità.
Con “Il contesto” e “Todo modo” – siamo alla fine degli Anni Sessanta – l’ambientazione si sposta dalla Sicilia in un città anonima, che adombra il potere centrale, politico e giudiziario, lacerato da faide feroci. E la Sicilia diventa allora la vivida metafora di una dissoluzione che non risparmia l’Italia intera.
Ora la narrazione si è fatta libello, la voce roca di Sciascia sembra sopportare con difficoltà le misure dell’invenzione. E lui, che è stato brevemente comunista e poi radicale, acuisce la sua natura di eretico impenitente. Anche nelle pagine indimenticabili che accolgono saggi storico-letterari, marginature erudite, note di diario (“La corda pazza”, “Nero su nero”) in cui si afferma pienamente la sua tempra di moralista irriducibile.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente. Ricordo i suoi lampi di ironia sul suo volto solitamente aggrondato e tetro, le parole che si staccavano lente, come scavate, tra gli anelli di fumo della sigaretta.
In ossequio alla diletta cultura francese e alla tradizione del feuilleton, accolse l’idea di pubblicare a puntate su La Stampa un libro di forte implicazione morale come “La scomparsa di Majorana”: dove la sparizione misteriosa di un fisico geniale diventa un severo richiamo alla responsabilità terribile di chi mette nelle mani di politici e militari un potere immenso.
Ancora, da certi documenti che gli feci pervenire trasse ispirazione per il romanzo storico “I pugnalatori”, dove si tratta di una setta efferata che agiva nella Palermo dell’Ottocento, dopo l’Unità.
Sono i ricordi di una fruttuosa frequentazione risoltasi, fino alle soglie della morte, in una schietta per quanto ombrosa amicizia.