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Fermare l’export militare? Non funziona mai. Parla il gen. Tricarico

Intervista al generale Leonardo Tricarico sulla scelta del governo che blocca le licenze sulle bombe ad Arabia Saudita ed Emirati. L’export della Difesa “continua a essere affrontato dalla politica italiana con ipocrisia e ricatto'”. Sarebbe ora che “le decisioni sulle esportazioni siano prese da un comitato di ministri”

Non si gestisce l’export militare con ideologie e ipocrisie, tanto più se il sostegno delle istituzioni alle vendite dell’industria nazionale è già evidentemente carente. Parola del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, che Formiche.net ha raggiunto per commentare la decisione del governo italiano di revocare le licenze all’export di missili e bombe verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Sancita dalla Farnesina (responsabile per le licenze), arriva dal ministro Luigi Di Maio ed è stata avallata da Giuseppe Conte.

Generale, come legge la decisione del governo?

Tutto si verifica in un quadro ben più preoccupante del caso specifico. Il governo difatti non dispone di uno strumento per sostenere le industrie nazionali nelle attività d’esportazione, comprese e soprattutto le industrie partecipate dallo Stato. Per poter affrontare il tema, bisogna prima di tutto mettere a fuoco questo concetto. Il governo, la politica e le istituzioni devono sostenere le attività di esportazione della Difesa.

A proposito, c’è chi sta rilanciando in queste ore l’idea di una riforma delle legge 185 del 1990 per rendere ancora più stringenti le regole per l’export militare…

Questo è il secondo problema, poiché in realtà la legge in questione appare sì inadeguata, ma in senso contrario. Ormai gli scenari internazionali rendono difficile il reperimento di Paesi, anche alleati, che possano dire di possedere i requisiti richiesti dalla legge per poter essere destinatari di materiali d’armamento italiani, cioè che non siano in conflitto o non violino i diritti umani. Allo stato attuale, una lettura stringente della normativa in vigore escluderebbe pressoché tutti i Paesi, compresi i nostri maggiori alleati. Tra l’altro, alla base c’è un problema procedurale.

Quale?

Che le autorizzazioni alle esportazioni sono attualmente concesse a firma di un ministro se non di un funzionario di livello medio-alto della Farnesina. Pur con tutti i coordinamenti con gli altri ministeri, è evidente che questo tipo di decisioni non possano che essere prese a un più alto livello, quello di un comitato di ministri. Al di là del caso specifico su Arabia Saudita ed Emirati Arabi, sono questioni da affrontare quanto prima.

Ritiene che l’Italia sconti nel suo approccio all’export militare un ritardo culturale rispetto ai competitor e alleati?

Assolutamente sì. Nel nostro Paese è un’attività ancora contraddistinta da ipocrisia e ricatto. Resta emblematico il caso dell’Egitto. Con tutto il rispetto per la vicenda Giulio Regeni, che chiede chiaramente chiarezza, non può una vicenda mettere in crisi i rapporti bilaterali con un Paese così importante. Le due questioni devono correre su binari paralleli: su uno gli interessi nazionali, e sull’altro la legalità. Non possono essere così strettamente condizionati l’uno all’altro.

In tema di export l’Italia aspetta ancora l’implementazione della normativa che consentirebbe al Paese di dotarsi del g2g, gli accordi governo-governo che sosterrebbero l’export della Difesa. Che segnale è?

Un altro segnale di ritardo, da collocare nella stessa logica di tanti provvedimenti già intrapresi dal governo ma privi degli accordi attuativi. Credo che si possa inserire nell’inefficienza generale dell’apparato burocratico italiano.

Lo stop all’export di bombe all’Arabia Saudita ed Emirati Arabi è rivendicato in queste ore dal M5S. Si può effettivamente attribuire al Movimento?

È senz’altro uno degli ultimi cavalli di battaglia del M5S ancora duri a essere domati. Nel corso degli ultimi anni, tutte le loro pregiudiziali e ideologie sono state ammainate una alla volta. Questa dell’export militare ancora no. Purtroppo l’Italia ha dovuto scontare l’inesperienza di larga parte del Movimento, arrivato ai vertice governativi costruendosi un’esperienza alle spalle del Paese.

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