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Il futuro della cultura passa da una nuova alleanza tra pubblico, privato e cittadinanza

Di Stefano Monti

Per far fronte alle inedite difficoltà che vive il nostro Paese bisogna stabilire un nuovo modello di “intervento” economico, e tali nuovi paradigmi andrebbero “testati” nel settore culturale. Le proposte di Stefano Monti, Partner Monti&Taft, che insegna Management delle Organizzazioni Culturali alla Pontificia Università Gregoriana

In giorni come questi, in cui la cronaca politica tende a convogliare l’attenzione sulle dimensioni contingenti, il nostro Paese si trova ad affrontare degli scenari di complessità che si dipanano soprattutto in una visione di più ampio respiro, che è quantomai necessario considerare.
Le modalità che il nostro Paese adotterà per fronteggiare le gravi condizioni sociali ed economiche che la pandemia ha direttamente ed indirettamente generato, rappresenteranno, infatti, un modello di intervento destinato a perdurare nel tempo.

Se da un lato, infatti, le azioni che verranno prese avranno degli effetti sensibili e significativi nei prossimi 3 – 5 anni, le modalità con cui tali azioni verranno adottate caratterizzeranno lo scenario per un periodo ben più lungo.
È in questo contesto così ampio e delicato che la gestione del patrimonio culturale può rappresentare un terreno di importante riflessione.

Conclusione probabilmente controintuitiva, ma che si basa sulla considerazione che, nei fatti, la gestione del patrimonio culturale rappresenta un settore in cui di certo non sono mancati i “tentativi” di trovare un dialogo tra le differenti componenti della società civile. Tentativi che talvolta hanno creato aberrazioni ma che in altre occasioni hanno risposto bene ad un’esigenza che rappresenterà il vero cardine di sviluppo per almeno il prossimo decennio: la costruzione di un’alleanza tra soggetti di differente natura per erogare servizi di interesse comune.

Dalle società strumentali alle fondazioni, dagli appalti alle concessioni, il settore culturale ha visto, negli ultimi anni, praticamente tutte le forme di collaborazioni ad oggi esistenti, coinvolgendo praticamente tutte le categorie “di beni”(mobili, immobili e immateriali), coinvolgendo altresì tutte le modalità di “finanziamento” (dai PPP “ad opere calde”, finanziate attraverso i ricavi a quelli integralmente finanziati dall’amministrazione, dal crowdfunding all’artbonus).

Soprattutto, quello culturale è un asset che presenta uno dei più ampi sistemi di creazione di valore, con forti esternalità positive, e con livelli di capillarità territoriale estremamente rilevanti.
Si badi bene: qui non si intende affermare, come in molti fanno e continueranno a fare, che il settore culturale è “l’industria che può, da sola, favorire lo sviluppo del nostro Paese”. Qui si afferma un concetto diverso: che la complessità che è propria del settore culturale, e che per certi versi è stata anche il motivo delle tante difficoltà di “gestione” del nostro Patrimonio, rappresenta un terreno ideale per immaginare nuove modalità di “integrazione” tra le iniziative imprenditoriali, finanziarie, individuali e pubbliche.

In altri termini, se per far fronte alle inedite difficoltà che vive il nostro Paese si renderà necessario stabilire un nuovo modello di “intervento” economico, è quello culturale il settore su cui tali nuovi paradigmi andrebbero “testati”.
Al riguardo è anche possibile osservare, unendo elementi che a prima vista potrebbero anche risultare distanti, come nel settore culturale sia in atto una progressiva preparazione a tale ruolo. Un cambiamento certo non rappresentato da episodi macroscopici, quanto piuttosto da piccoli eventi microcosmici che però possono individuare un progressivo cambio di sensibilità, che, a sua volta, può essere preludio di modifiche più strutturali all’interno dei modelli di gestione oggi in essere.

È questo il caso di alcune sentenze del Consiglio di Stato in materia di concessioni, della pubblicazione di gare, come quella del Museo Galata di Mare, che prevedono una struttura innovativa, della progressiva sensibilizzazione da parte del legislatore, che ha previsto nella legge di bilancio un primo tentativo di definizione delle industrie culturali e creative, delle molteplici introduzioni progettuali legate alla “cultura” all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, fino alla recente introduzione della cosiddetta Carta di Catania, con la quale la Regione Sicilia innova le modalità di valorizzazione del patrimonio culturale custodito nei depositi dei propri istituti periferici, introducendo un modello di “concessione in uso subordinato al pagamento di un corrispettivo”, salutato in modo molto positivo da alcuni operatori del settore, come la recente associazione SIC – Società di Ingegneria Culturale”.

Si tratta, ovviamente, di un’interpretazione del presente che, in quanto tali possono dunque essere in parte o del tutto fallaci.
Ciò che è certo, invece, è che il settore culturale, soprattutto nelle proprie intersecazioni con le iniziative di riqualificazione urbana e territoriale, rappresenta uno dei temi più importanti della concreta “rinascita” dei nostri centri urbani e comunali.
Interventi, ad esempio volti alla creazione di modelli per la riqualifica del tessuto immobiliare urbano in disuso attraverso la cultura potrebbero essere l’oggetto su cui l’amministrazione, l’imprenditoria, la finanza, i cittadini e i soggetti del terzo settore possono confrontarsi per individuare nuove modalità di creazione di valore pubblico, predisponendo azioni infrastrutturali (restauro, contenimento della spesa energetica, contenimento del rischio sismico, ecc.) e progetti di gestione innovativi.

Interventi di questo tipo, oltre a presentare dei vantaggi dal punto di vista “concreto” e “tangibile” all’interno del processo di riqualificazione infrastrutturale e immateriale dei nostri territori, sarebbero altresì il banco di prova di molteplici modalità “contrattuali” tra distinti soggetti della società civile.
Condizione, questa, che potrebbe avere due importanti ricadute sul piano programmatico del nostro Paese. In primo luogo una cultura di partnership diffusa, frutto della capillarità del nostro patrimonio culturale sull’intero territorio nazionale; in secondo luogo, lo sviluppo di modelli di partecipazione sempre più sofisticati, da poter applicare, pur con le dovute modifiche, anche ad interventi ben più “onerosi”, come quelli legati allo sviluppo infrastrutturale in senso stretto, evitando che in quei settori a più alta intensità di capitali si possano ripetere gli errori e le distorsioni che hanno caratterizzato sino ad oggi molti interventi di questo tipo.

Si tratterebbe, in fin dei conti, di trasformare le criticità riscontrate nell’applicare modelli di gestione efficaci del nostro patrimonio culturale, un’opportunità per il rilancio non solo del settore, ma anche di una cultura di “coesione”, che potrebbe creare non poche opportunità di crescita e di sviluppo per il nostro Paese.
Un’azione di questo tipo rappresenterebbe un’occasione per imparare dagli errori commessi e costruire un nuovo tassello nell’ormai secolare tentativo di far convergere gli interessi pubblici e quelli privati.”



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