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Draghi? La classe (politica) non è acqua. Il mosaico di Fusi

Di Carlo Fusi

Sulla stampa è un continuo parallelismo fra Mario Draghi e i precedenti premier “tecnici”. Ma l’unico azzeccato è quello con Carlo Azeglio Ciampi. Dalla qualità dei ministri al programma, ecco cosa l’ex numero uno della Bce può imparare da quel lontano 1993. Il mosaico di Carlo Fusi

In queste ore si sprecano i parallelismi tra la figura di Mario Draghi e i suoi predecessori premier facenti parti della covata di super tecnici con respiro politico: Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti. Parallelismi e assonanze inevitabili e tuttavia non sempre azzeccati. Nel senso che stavolta più che le identità contano le differenze.

Ciampi arrivò a palazzo Chigi in una temperie politico-economica drammatica segnata da Tangentopoli; Monti dovette abbattere il Moloch dello spread. Il primo portò in dote la sua mentalità azionista e lo spirito pionieristico che animava quel partito laico e in un certo senso “dei migliori” che rifiutavano le armature ideologiche.

Mitica rimane la volta che, da ex governatore e da ministro, si infilò in un budello a Roma in via Andrea Doria, archeologico reperto di Giustizia e Libertà, per discutere di giustizia sociale e patriottismo con i compagni di un tempo.

Dopo di lui, al Quirinale venne Giorgio Napolitano, primo presidente della tradizione post-comunista, e a palazzo Chigi tornò Berlusconi. Il secondo, da tecnocratico investito dei paramenti di senatore a vita, inoculò nello shock del quasi default uno stile di sobrietà penitenziale, una criogenesi che puntava ad ibernare lo scontro politico. Allo scongelamento, emerse il M5S.

Draghi è diverso da entrambi e il suo tentativo nasce in un contesto dove fanno da sfondo le macerie di una crisi di sistema. Il che fa emergere un aspetto che è fondamentale. Le discettazioni sul carattere politico o tecnico dell’esecutivo in via di gestazione sono racchiuse nei cortili dei Palazzi: i cittadini non le sentono e tantomeno le capiscono.

Invece la squadra dei ministri, quella sì che sarà visibile. Segnerà lo spartiacque tra l’esaltazione dell’uno vale uno, estrinsecazione populista dell’egualitarismo già avviato dalla cuoca di Lenin, e l’abito della competenza e della capacità che è viatico per servire con efficacia lo Stato. Demagogia vs Civil Servant.

Per dirla più brutalmente, i ministri di Draghi dovranno segnare il salto di qualità che serve al Paese: come e più dei programmi. Le classi politiche delle cosiddette Prima e Seconda repubblica hanno fallito, seminando sconcerto e disaffezione nei cittadini. Quella che le ha sostituite – tra abolizione della povertà, giustizialismo, Caporetto della precarietà – non ha fatto di meglio, al di là delle qualità dei singoli.

Perciò la squadra dell’ex presidente Bce in qualche misura, sia visivamente che mediaticamente, dovrà segnare non solo una discontinuità col passato anche prossimo, quanto soprattutto il seme per ricostituire la fiducia degli italiani in chi svolge ruoli pubblici.

Il germoglio di una classe dirigente politica capace di riassorbire il crollo di fiducia e autorevolezza che ha segnato l’allontanamento degli elettori dai seggi e la perdita di credibilità dei politici agli occhi dei cittadini.

A ben vedere è questa la sfida vera e il compito più arduo del presidente incaricato. Sotto questo profilo, davvero Draghi può prendere il testimone lasciato da Ciampi. Il suo governo del 1993 fu considerato da molti il migliore dal dopoguerra per qualità, affidabilità e competenza dei titolari di dicastero.

Draghi non può che (ri)cominciare da lì, per offrire una speranza di rinnovamento, di attendibilità, di sicurezza d’azione. L’Italia ne ha assoluto bisogno al di là e oltre le appartenenze di partito. Sergio Mattarella l’ha capito prima e meglio di tutti.


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