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Pagine di futuro già scritte. Da Francesco Cossiga

Il messaggio alle Camere del ’91, perché le “picconate” prefiguravano lo scenario e le scelte di queste ore. E oggi le sosterrebbero. L’intervento di Mario Benedetto

La prima immagine che torna in mente pensando all’uomo (di Stato) di cui andiamo a parlare, tentando di valutare l’attualità dei giorni nostri attraverso suoi gesti e idee, è l’impatto che offriva l’ingresso della sua abitazione. Un dato generalmente indicativo della personalità che ci appresta ad incontrare.

In questo caso l’accoglienza era riservata a una bandiera che, alla luce di un profilo così “alto” e oserei dire “patriottico”, lascerebbe pensare subito al tricolore. Invece si tratta di una bandiera simbolo di un altrettanto valido patriottismo, ma “isolano”. Quella bandiera “dei quattro mori” simbolo della storia di una terra ricca di fascino e grandi tradizioni. In questa sede, indizio determinante nell’individuare il soggetto della narrazione.

Per quanto mi è stato possibile sapere e constatare direttamente, Francesco Cossiga può essere definito in prima battuta esattamente così: un uomo di Stato, sostenitore di una sovranità che non è sorda alle ragioni dell’indipendentismo. È uno dei tratti caratteristici della sua personalità, che lui stesso definitiva animata dall’operare incessante dell’ “omino bianco” e dell’ “omino nero”. I due hanno dato vita all’opera, preziosa, di colui che è stato insieme notabile democristiano e picconatore, moderato ed estremista, cattolico e attento a “terrene” forme di gestione del potere, uomo di Stato e politico sensibile alle istanze “regionalistiche” come quelle dei popoli baschi, catalani, della Scozia da lui molto amata anche a livello personale. Non da ultimo, estremamente serio ed estremamente ironico. “L’omino bianco pensa a costruire, quello nero a rincorrerlo e distruggere” diceva lui stesso. Che poi parlava per bocca di Franco Mauri, suo giovane allievo di destra (“Franco” sta per Francesco, il nome del Presidente, e “Mauri” richiama i mori della bandiera sarda) e Mauro Franchi (il cui nome ha gli stessi riferimenti concettuali, invertiti) l’allievo di sinistra. In realtà, pseudonimi scelti da Cossiga per pubblicare articoli che rispecchiavano i relativi pensieri degli “autori”, o meglio dell’autore.

Un “dualismo” che ha connotato il suo pensiero e la sua azione anche da Capo dello Stato, ruolo di cui si ricordano i suoi esordi silenti, “einaudiani”, per poi appunto arrivare alla svolta, che gli è valsa lo storico soprannome, inaugurata a Tolosa in occasione di una sua visita di Stato nel febbraio del 1990, dedicata anche alla discussione con Mitterand sulla riunificazione tedesca. Sul Giornale del 2 febbraio quella del Presidente fu definita una “inattesa strigliata”, considerato che dalla Francia si occupava di questioni di politica interna, rivolgendosi ai partiti in vista della presidenza di turno della Cee nel secondo semestre del 1990, da affrontare degnamente.

Dal Presidente della Repubblica si doveva accettare un monito di questo tipo, da Cossiga lo si faceva anche con una certa attenzione e un certo rispetto, diversamente da quel che, purtroppo, accade oggi con una certa frequenza.
Difendere la propria terra significa anche soffermarsi sull’azione riformatrice che può farne una protagonista sempre più incisiva a livello globale. Cossiga lo sapeva bene e, mentre tesseva le relazioni che ci rendevano ascoltati nello scacchiere mondiale, era in grado di definire la nostra Carta costituzionale, che invitava sempre doverosamente a rispettare, “un intelligente e pratico compromesso tra democratico-cristiani e comunisti” e allo stesso tempo «tra le peggiori del dopoguerra dal punto di vista tecnico».

Lo pensa(va)no in molti, lo diceva solo lui. Venute meno voci come la sua, dobbiamo riconoscere, purtroppo ne abbiamo perso tutti. In idee, anche criticabili, e in libertà.

Nonostante una personalità tanto forte, a tratti “estrema”, la dialettica è sempre stata al centro della cultura, non solo politica, di Cossiga. Ricordo ancora quando, con il mio stupore di giovane, mi invitava a studiare il pensiero riformista di Oscar Luigi Scalfaro, come sappiamo bene figura alla quale non era legato da particolari affinità, anzi.

Eppure riteneva “importantissimo” – come può testimoniare l’indice del mio scritto corretto di suo pugno – il pensiero espresso da Scalfaro nel suo libro “La mia costituzione. Dalla Costituente ai tentativi di riforma”.
A impressionare è proprio il frutto della penna di Cossiga nel lontano 1991. Non un libro, ma un messaggio alle Camere che racchiude nelle sue conclusioni il senso della scossa che intende trasmettere: il bisogno di riforme istituzionali viene visto dal Presidente non come esclusivamente politico, ma civile, morale e sociale.
Il parallelismo con l’attualità è immediato, le sue sembrano parole scritte in queste ore, per un Paese che ha esattamente, e ancora, le necessità di allora.

Il primo ministro Giulio Andreotti era a capo di un governo che non è ricordato tra i più attivi della Repubblica. Tra i provvedimenti adottati fa riflettere, infatti, l’amnistia per i reati relativi alla violazione della legge sul finanziamento dei partiti. La gestione del Paese sarebbe stata, in quel periodo, complicata per qualsiasi governo, proprio come diciamo in questi giorni. Il deficit di bilancio ammontava a più del dieci per cento del pil, che comportava gravi ripercussioni soprattutto nel Sud.

Cossiga invitava “salvare i partiti dagli effetti devastanti della partitocrazia”. Ci dice nulla?

Un sistema, quello attuale, che vede queste stesse esigenze, se non di ulteriori: il tentativo di sopravvivenza “particolare” che minaccia l’interesse generale. Assistendo non solo a rischi di partitocrazia, ma persino a conflitti allarmanti all’interno di queste compagini che possono fare del nostro futuro il risultato di quella che definisco una “evoluzione tribale”.

Le riforme devono essere promosse dalla politica, ma animate da processi sociali che mettano al centro il nostro migliore “spirito critico”, rivolto alla tutela del benessere collettivo, a scapito di un “istinto” che spinga rudemente alla tutela rendite di posizione e piccoli “orti”.

Lo diceva Cossiga, lo vediamo ancora oggi anche attraverso una crisi dalla quale, emblematicamente, si può uscire presto e bene solo con il contributo di tutti, se non si accetta di essere “intelligenti per decreto” ma per responsabilità, partecipando a uno sforzo collettivo, a favore di sé stessi e di chi abbiamo affianco. Occorre, ora come e più di allora, uno “spirito popolare di riforma”.

In quel messaggio Cossiga parlava delle necessità di evoluzione della forma di governo, con un necessario rafforzamento del potere esecutivo, e del sistema elettorale. Se ne parla anche oggi, con alcuni inviti a un’evoluzione in ottica proporzionale che deve far riflettere proprio in merito all’efficacia che (non) si assicurerebbe all’azione politica, ma anche a quell’attenzione per le esigenze “particolari” che rischiano di far passare in secondo piano “ragioni di Stato” a favore di quelle delle sue “tribù”, antropologicamente parlando.

C’è anche un riferimento alla riforma dell’ordinamento giudiziario, ed ecco che l’attualità ci propone, oltre a vari vicissitudini, quella del valore simbolico di Palamara e del suo libro con Sallusti. Palamara, tra l’altro, protagonista di un confronto dai toni molto accesi nell’occasione di un talk su Skytg24 animato da “picconate” di una certa durezza.
Questo era Cossiga, con le sue criticità, i suoi eccessi e le sue evidenti qualità. Mi piace condividere, tra i tanti, il ricordo Giulio Tremonti che, all’indomani della scomparsa di Cossiga, diceva: “i politici si distinguono in due categorie: gli uomini e gli altri. Francesco Cossiga era un Uomo”.

Un uomo capace di non snaturare il suo pensiero e farlo sentire, in qualsiasi veste. È semplice, infatti, “tuonare” e lanciare provocazioni tra amici o quando non si ricoprono ruoli di responsabilità. Più difficile è farlo dall’alto, come Cossiga ha fatto in ogni sede, sino alla più “alta” per eccellenza, il Palazzo del Quirinale.

Cossiga rivendicava la centralità della politica, che trovo pienamente condivisibile, ma non del tutto percorribile allo stato attuale. Da un lato questo potrebbe allontanarmi oggi dal suo pensiero, dall’altro non ne sono convinto, perché posso dirmi quasi certo che la sua opinione rispetto a scelte “tecniche” non avrebbe ignorato le attuali esigenze di contesto. Legate tanto al fattore endogeno delle esigenze economiche e sociali di un’Italia sotto pressione, quanto a quello esogeno e geopolitico di una non ignorabile influenza “atlantica”. Con una politica chiamata a recuperare un’autorevolezza che stavolta, proprio per quella responsabilità che deve contraddistinguere la sua azione, deve accettare e persino sostenere la limitazione del suo raggio d’azione. In attesa che recuperino centralità la necessarie competenze e l’espressione della volontà popolare nell’individuazione di rappresentanti ai quali non guardare più, come spesso purtroppo accade oggi, con la (poca) fiducia dell’occhio diffidente di un amante tradito.

Le undici righe cancellate

Il messaggio presidenziale del 26 giugno 1991 non venne però trasmesso alle Camere nella sua versione originaria. Da quelle lunghe ottantadue cartelle il presidente della Repubblica decise di eliminare solo undici righe, ma dal forte contenuto politico, per favorire la controfirma da parte dell’allora presidente del Consiglio dei ministri, l’onorevole Giulio Andreotti.

La parte del messaggio eliminata conteneva la proposta di Cossiga a favore di un forte Governo di unità nazionale, che in quel periodo sarebbe stato probabilmente capace di dare un impulso deciso, ma allo stesso tempo frutto di una vasta intesa, alle proposte di rinnovamento sistemico che stavano prendendo forma. Tra le forze di governo per Cossiga andava inserito anche il nuovo Pds di Occhetto, che, sull’onda della deideologizzazione avviata dal crollo del Muro di Berlino, avrebbe avuto la possibilità di entrare nel gioco democratico, alterando l’equilibrio generale al cui centro ancora resisteva la Dc.

Voci autorevoli, come quella di Indro Montanelli, hanno avanzato l’ipotesi secondo cui, oltre al suddetto riferimento al ruolo del partito democristiano, ve ne fu un altro che spinse Andreotti a non controfirmare il messaggio presidenziale: l’interesse da parte del primo ministro nel privare Cossiga dell’appoggio della sinistra comunista, che sarebbe stato utile ai fini di una eventuale rielezione del Presidente al Colle. Sta di fatto che, in una lettera inviata al capo dello Stato, Andreotti dichiarò di ritenere più opportuno che la controfirma, definita un mero atto formale, fosse posta dal guardasigilli.

Testo integrale della lettera inviata dal presidente del Consiglio Andreotti al presidente della Repubblica Francesco Cossiga:

26 Giugno 1991
Caro presidente,
ho avuto ieri sera dal segretario generale della Presidenza della Repubblica la tua lettera interpretativa sui ruoli rispettivi in materia di messaggio e insieme la bozza del messaggio stesso. Poiché tu ritieni, confortato dalla allegata dottrina, che il compito del governo – nella necessaria controfirma – sia meramente formale, e cioè attenga alla «autenticità della provenienza del documento e alla sua conformità ai principi e alle norme della Costituzione» mi domando se non sia più corretto che la controfirma venga posta dal guardasigilli ovvero da uno dei ministri con funzioni specifiche (Rapporti con il parlamento o Affari costituzionali). Così è infatti accaduto per il messaggio sulla Giustizia, anche se io stesso lo approvai preventivamente nel merito, suggerendo qualche modifica.

In un contesto così ampio e problematico quale quello odierno, tale soluzione sarebbe anche più rispettosa, da parte mia, sulla collegialità del governo di cui io non sono che un coordinatore costituzionale.
Tuttavia se questo creasse ostacoli, firmerei, per un atto di riguardo verso la tua persona e per non suscitare erronee illazioni.

In quanto al mio «avviso, consiglio, incoraggiamento e avvertimento» non è agevole esprimermi su ottantasei pagine dattiloscritte, pur avendovi dedicato parte della notte.

Ecco le mie impressioni.
Vi è – accanto a una fedele ricostruzione storica e a un’ampia ricognizione delle varie tesi, già affacciate o possibili (salvo quelle leghiste dell’emendamento) – un tono eccessivamente negativo sulla situazione corrigenda. Usi più volte l’espressione «delegittimazione» («ormai sempre più visibile») e questo potrebbe al limite portare anche alla… legittimazione della disobbedienza civile, dinanzi alla: «crisi del regime» «comunemente individuata».
Questa è un’osservazione di fondo. Vi è, poi, un’enfatizzazione nella interpretazione dell’ultimo referendum che non mi sembra pacifica e che viene a colpire anche chi – io non ero tra questi – sosteneva legittimamente l’invito a non andare alle urne.

Anche la reiterata contrapposizione tra popolo sovrano e rappresentanza è pericolosa, perché sappiamo storicamente i rischi della soggettiva distinzione tra Paese reale e Paese legale. Del resto il nostro sistema non è poi così chiuso se forze nuove possono emergere anche in misura consistente (le leghe, la Rete siciliana).
Circa le leggi elettorali, dovresti richiamare la grave lacuna rimasta aperta per il Senato della disparità tra candidature e seggi; tanto che se i duecentotrenta fossero eletti con il sessantacinque per cento e quindi senza resti, l’Assemblea rimarrebbe incompiuta.

Circa la parte più strettamente politica, nei riguardi dei partiti si presterà a contrapposte polemiche. Ma questo è merito su cui non sono ex officio competente, date le suddette premesse.
In quanto a una spietata fotografia – a mio avviso generalizzata – della situazione presente, mi sembra che ne dovrebbe derivare una squalifica generale che sarebbe ingiusta e foriera di incertezze. Non credo che sia giusto il tuo pensiero.

Berlinguer mi ha detto che vuoi per questa mattina presto la mia risposta e più di questo non sono in grado di dirti.
Vedi tu, comprendo il desiderio di non sembrare spinto dalle riunioni politiche dei prossimi giorni, ma che tu stia lavorando al messaggio è più che noto. Io stesso lo pronunciai alla Camera, rifiutando il dibattito sulle interpellanze.
Con i migliori saluti e con tanti auguri affettuosi
Tuo
Giulio Andreotti



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