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L’Italia e la revisione dei parametri di crescita e di stabilità

Un’azione italiana per lanciare il processo di riforma è necessaria prima ancora che utile. Nell’Ue, l’Italia non sarebbe più vista come uno Stato tecnicamente “petente”, ossia che chiede assistenza, ma come un Paese che intende essere protagonista nel riassetto post-pandemia. All’interno, si smusserebbero le pulsioni sovraniste. L’analisi di Giuseppe Pennisi

Alla riunione dell’Eurogruppo di ieri 15 febbraio dei ministri economici e finanziari dei 19 Stati dell’Unione monetaria europea è iniziata una discussione (non si tratta ancora di un negoziato) che probabilmente continuerà alla riunione dei ministri Economici e Finanziari dell’Unione europea (Ue), giornalisticamente chiamato Ecofin, di oggi pomeriggio sulla revisione dei “parametri” relativi ai disavanzi e ai debiti della Pubblica amministrazione, nonché del futuro del “quadro provvisorio” per la regolamentazione degli aiuti di Stato. Il patto di crescita e stabilità è stato “sospeso” la primavera del 2020 a ragione della pandemia. Nello stesso periodo, è stato attuato un “quadro provvisorio” alla regolamentazione degli aiuti di Stato nella convinzione dell’esigenza che l’intervento dello Stato fosse necessario per impedire che crisi di liquidità, causate dalla pandemia, avrebbero potuto portare al fallimento di aziende anche sostanzialmente solide.

Sono due temi che interessano direttamente l’Italia. Sul “regime transitorio” degli aiuti di Stato, il nodo essenziale è definire i tempi e i modi per il ritorno ad un sistema di concorrenza tale essenzialmente da irrobustire i settori produttivi (principalmente industria e servizi) dell’Ue. Per i “parametri”, iscritti nel Trattato di Maastricht e successivamente rafforzati nel Patto di crescita e stabilità, il discorso è più complesso. Come nel 1943-44 la diplomazia del dollaro della sterlina (ossia quella anglo-americana) si prese carico di disegnare (e cominciare ad allestire) regole ed istituzioni che avrebbero promosso crescita ed equità dopo la seconda guerra mondiale, ora i leader dell’Ue dovrebbero affrontare le riforme per un’Unione monetaria che in quasi un quarto di secolo ha mostrato di necessitare di un “tagliando” serio affinché, dopo la pandemia, le sue regole non frenino la crescita e non aggravino l’indebitamento di alcuni Paesi, rendendo più difficile l’inevitabile riassetto strutturale.

È un tema urgente perché giungere a nuove regole condivise dai 27 (e ratificate dai loro Parlamenti) è un processo lungo, tutto in salita ed irto di ostacoli. L’autunno scorso, due economisti austriaci, Philipp Heimberger e Kurt Bayer (quest’ultimo ha rivestito incarichi alla Banca mondiale e alla Bers) hanno detto a gran voce quanto molti sanno: i “parametri” di Maastricht furono un compromesso proposto da giovani diplomatici del Benelux con conoscenze di economia, ma che si basavano su una strumentazione rudimentale e già allora obsoleta. Quelli, successivi, del Patto ne sono la conseguenza logica per promuovere l’attuazione dei primi. Con genuinità emiliana, Romano Prodi si tolse il laticlavio da presidente della Commissione europea e li definì “stupidi”. Il loro risultato è stato l’attuazione di politiche non favorevoli alla crescita specialmente in Paesi “dualistici” (ossia con importanti settori o territori in ritardo di sviluppo) come l’Italia. Un’azione italiana per lanciare il processo di riforma è necessaria prima ancora che utile. Nell’Ue, l’Italia non sarebbe più vista come uno Stato tecnicamente “petente”, ossia che chiede assistenza, ma come un Paese che intende essere protagonista nel riassetto post-pandemia. All’interno, si smusserebbero le pulsioni sovraniste.

In novembre è stato creato “un gruppo di riflessione” nell’ambito della Direzione generale che fa capo al commissario Paolo Gentiloni. Il tema è complesso perché agli originali parametri del Trattato di Maastricht relativi ai tassi d’interesse, all’indebitamento annuale netto delle pubbliche amministrazioni (Pa), allo stock di indebitamento in rapporto al Pil, se ne sono via aggiunti altri, ma anche eccezioni e deroghe. Adesso, la matassa è tale che assomiglia alla “questione d’Oriente” della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento (l’assetto degli Stati europei, dagli incerti confini, nati sulle ceneri dell’Impero Ottomano), questione che portò all’attentato di Sarajevo e alla prima guerra mondiale. All’epoca, si scherzava dicendo che la materia era così ingarbugliata che solo tre persone la comprendevano a pieno, ma uno era morto, un altro impazzito ed il terzo aveva perso la memoria.

Ai lavori del “gruppo di riflessione” era stata dato come scadenza per il loro lavoro le primavera del 2021. Non è dato sapere se all’Eurogruppo di ieri e all’Ecofin di oggi giunge una prima stesura del rapporto. È auspicabile che quando completato, venga pubblicato in modo da innescare una discussione scientifica e professionale pubblica.

Alcuni Stati si sussurra si stanno già muovendo in incontri informali; ad esempio, Parigi chiede che le spese per investimenti vengano scorporate dal parametro relativo all’indebitamento netto. È tema che interessa anche l’Italia, specialmente se dopo oltre vent’anni di stagnazione la spesa pubblica in conto capitale riprenderà. Il “parametro” più complesso, specie per l’Italia, è quello del debito: a causa della pandemia e delle spese in deficit, sia per portare sollievo ai più colpiti sia per rilanciare produzione ed occupazione, a fine 2021 il rapporto tra debito delle pubbliche amministrazione e Pil raggiungerà circa il 170%, mentre il parametro di Maastricht afferma che non deve superare il 60% ed il “Fiscal compact” del 2012 richiede che il differenziale debba essere ridotto ogni anno di un ventesimo sino a raggiungere l’obiettivo comune.

Lo stesso “European Fiscal Council” (ossia l’Ufficio di bilancio per l’Unione monetaria) ha alzato la voce per sostenere che un parametro che obblighi il debito a non superare il 60% del Pil non ha logica economica. Trent’anni fa venne definito in modo piuttosto rozzo, sulla base della media dell’indebitamento in rapporto al Pil degli Stati che volevano fare parte del’Ume. Ora la “dottrina”, per così dire, dello stesso Fondo monetario è che il debito si considera “sostenibile” sino a quando il tasso di crescita del Pil supera il tasso d’interesse. Si sta riflettendo su un parametro che faccia riferimento ad un “obiettivo a lungo termine”, con relativo “monitoraggio”; l’obiettivo sarebbe maggiore rispetto al 60% del Pil e guarderebbe molto al denominatore, ossia al tasso di crescita. Una ragione in più per mirare allo sviluppo con le risorse disponibili. Anche e soprattutto quelle del “Resilience and Recovery Fund”.

Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, che, negli Anni Novanta è stato anche Consigliere economico della Commissione europea, è in una posizione di leadership nella trattativa per la definizione dei nuovi “parametri” e del programma e calendario per la loro entrata in vigore.


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