Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.
Così giovane e già così democristiano, e non si sa se il giudizio oggi suoni come un rimprovero o, date le circostanze, un complimento. Certo è che Enrico Letta da Pisa, classe 1966, sta riproponendo al meglio quell’arte del rinvio in cui eccellevano gli Andreotti e i Forlani nella vituperata – ma evidentemente sopravvissuta – prima Repubblica.
Quando il gioco si fa duro e i duri, si dice, dovrebbero mettersi a giocare, ecco che invece scende in campo Enrico il temporeggiatore. Con un sorriso sempre e solo accennato e tono curiale, il presidente del Consiglio mette le cose a posto e spegne le polemiche. Prudente e premuroso. Ma al costo di decidere di non decidere: è la nuova, antica politica adottata per durare al tempo della crisi. E soprattutto al cospetto di un esecutivo che dice tutto e il contrario di tutto, come si conviene a una coalizione che nasce a sinistra e finisce a destra, o viceversa.
Dall’Imu all’Iva, dal taglio dei soldi pubblici ai partiti a quello delle Province, dalla riforma delle pensioni alle riforme in quanto tali è tutto uno spostare le scelte da compiere di settimana in settimana, di commissione in commissione, di disegno di legge in disegno di legge. Persino di “verifica” in verifica della maggioranza: il Nostro ha resuscitato anche le parole impolverate del tempo che fu.
Intendiamoci, dover accontentare Pd e Pdl passando per Monti, e senza deludere Napolitano, e senza imbattersi nelle ire di Grillo, è un esercizio di pazienza e di astuzia a cui pochi sarebbero portati.
Ma l’obiettivo del governo non è quello, pur necessario, di tagliare il traguardo dei diciotto mesi che si è dato. Il governo esiste non per durare, ma per governare. La stabilità è un valore finché non diventa immobilismo. Il programma è un valore finché non si trasforma in un calendario di promesse. Anzi, in promesse da calende greche.
Arriva il momento in cui anche un presidente del Consiglio così a modo come il Letta mai di lotta ma solo di governo, deve prendersi la responsabilità del “sì” oppure del “no” alle varie e importanti misure, appunto, “in agenda”.
Col balletto del rinvio si tira in avanti, sicuro – “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, diceva Andreotti – ma non si risolvono i problemi dell’Italia per i quali questo esecutivo è nato. Né si risolve alcunché delegando le questioni italiane all’Europa o facendoci dare penose lezioni di economia dal Fondo monetario internazionale in casa nostra. Letta si decida e decida. Alzi la voce come si conviene al tenore del governo, prima di lasciare la scena.