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Ecco come Papa Francesco contrasterà il declino dell’Europa cristiana

Il giorno dell’elezione al soglio di Pietro del cardinale Jorge Mario Bergoglio voci autorevoli, anche all’interno delle Mura vaticane, si erano spinte a mugugnare che purtroppo “l’Europa non è più in grado neppure di esprimere un Papa”. Certificando così ufficialmente la crisi del Vecchio Continente non solo dal punto di vista economico e finanziario, ma anche da quello culturale e spirituale, e quindi cristiano.

Un segnale, quello di un Papa extraeuropeo, che poteva essere considerato da alcuni come una chiusura di quel “secolo lungo” della Chiesa cattolica (la definizione è dello storico Alberto Melloni, in un suo saggio di qualche anno fa) – iniziato con la debellatio dello Stato pontificio nel 1870 e culminato prima con il Giubileo del 2000 e poi con la successione di due pontefici-amici, Karol Woytjla e Joseph Ratzinger, espressioni culturali delle nazioni che avevano dato il via alla crisi del secondo conflitto mondiale (la Germania e la Polonia, seppure con responsabilità molto diverse) – che è stato il Novecento; da altri come una resa, proprio dopo gli sforzi del pontificato ratzingeriano nel combattere la secolarizzazione e l’irrilevanza che l’Europa avrebbe potuto raggiungere, se avesse proseguito nell’opera di stravolgimento della classica citazione crociana sull’impossibilità di non dirsi cristiani. Benedetto XVI, che sulla dissociazione tra fede e ragione in Europa ha fondato il suo pontificato, lo aveva detto chiaramente in occasione del discorso alla curia romana per gli auguri di Natale del dicembre 2011: “la Chiesa in Europa è in crisi perché è in crisi la fede”.

Per questo, la risposta della Kek (Conferenza delle Chiese europee), riunita in assemblea fino all’8 luglio a Budapest, suona ora come una rincorsa, ancorché necessaria, riproponendo come centrale, per la missione di evangelizzazione cristiana, proprio il territorio europeo.

Il cardinale Peter Erdo, arcivescovo della capitale ungherese e presidente del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa), inserito nella rosa dei papabili dell’ultimo conclave, almeno fino all’ingresso nella Cappella Sistina, facendo gli onori di casa e richiamando l’esortazione apostolica Ecclesia in Europa di Giovanni Paolo II, ha infatti cercato di dare un segnale di scossa: “È tempo che ora l’Europa decida nuovamente del suo futuro nell’incontro con la persona e il messaggio di Gesù Cristo”, perché “Cristo può essere ancora messaggio di speranza per l’Europa”.

E in questo il rinnovamento delle strutture è importante e va fatto quanto prima, come ha ricordato Papa Francesco nel corso della messa a Santa Marta sabato 6 luglio commentando il Vangelo sul “vino nuovo in otri nuovi”, ma non basta. Sono necessarie, ha concluso Erdo, “le persone e le comunità vive che possono testimoniare in modo efficace la presenza di Gesù nel nostro mondo”. Pur non essendo il nostro ruolo quello di “risolvere tutti i problemi dell’Europa – gli ha fatto eco il metropolita Emmanuel di Francia – se cambiamo noi stessi, riconnettendo le persone alle chiese, possiamo anche cambiare il nostro ambiente”.

Che queste persone vengano d’oltreoceano, come una squadra di calcio in difficoltà si affida all’asso straniero per tornare competitiva, poco importa. Ne è convinto il cardinale brasiliano Claudio Hummes, tanto vicino a Francesco da potergli stare accanto sul balcone al momento del saluto ai fedeli dopo l’elezione il 13 marzo scorso, “il fatto che oggi arrivi un papa extraeuropeo ha un significato molto grande perché mostra ciò che la Chiesa ha sempre detto: la Chiesa è universale, per l’umanità. Non è solo per l’Europa”.

Così se non sorprende che l’editoriale della prestigiosa rivista di geopolitica Limes, nel numero dedicato al nuovo Papa Francesco, tratteggiasse una scala di cinque priorità strategiche per il futuro della Chiesa, inserendo solo all’ultimo posto il “confronto con il mondo ipersecolarizzato, il cui epicentro è l’occidente, particolarmente l’Europa” (dopo i rapporti con la Cina e l’Asia, la lotta alla proliferazione delle nuove sette protestanti e pentecostali, il dialogo con l’Islam, l’ecumenismo); più preoccupanti potevano essere interpretate le parole del cardinale Angelo Scola pronunciate qualche giorno fa.

L’arcivescovo di Milano, entrato Papa e uscito cardinale, almeno nelle valutazioni degli analisti, dal conclave nel quale è poi risultato eletto Sommo Pontefice l’arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio, alla vigilia dell’ultimo appuntamento della Fondazione Oasis da lui costituita, ha confidato in una intervista alla Stampa: “Siamo affaticati, vecchi, sia come società civile che come Chiese. E lo si può capire: da secoli ci portiamo sulle spalle vicende e questioni assai complesse. Non ci piace ammetterlo ma l’Europa sembra quasi al tramonto”.

E dello stesso avviso si era mostrato un anno prima anche il rabbino capo della Gran Bretagna Jonathan Sacks, a margine di un incontro con Benedetto XVI.

Invece, chiudendo il ragionamento, era lo stesso Scola a suggerire: “la Provvidenza ci sta dando una sferzata con il nuovo Papa che propone di ricominciare dall’esperienza elementare, comune a ogni uomo. Le Chiese europee devono avere il coraggio di ripartire da qui”. È il senso di una “Chiesa più missionaria e meno tranquilla. Più gioiosa e non triste”, di cui ha parlato il Papa nell’incontro con i seminaristi, i novizi e le novizie ieri sera, riverberato nel grido lanciato all’Angelus di questa mattina in San Pietro: “Non c’è tempo da perdere in chiacchiere, non bisogna aspettare il consenso di tutti, bisogna andare e annunciare”.

Una nuova missio ad gentes anche per rievangelizzare l’Europa. Ci riuscirà il “latino” Francesco?


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