Alla vigilia della riunione dei ministri delle finanze del G20, la multinazionale di Mountain View lancia un appello e chiede di uniformare la tassazione internazionale. L’intervento di Sarah Supino, esperta in diritto e impresa, fa luce su un discorso che va avanti da troppi anni
Tramite un post sul suo blog, il gigante tecnologico Google interviene a gamba tesa nel dibattito sulla tassazione di Big Tech. L’appello della compagnia di Mountain View, comparso il giorno prima del summit tra ministri delle finanze del G20, è un’esortazione a concordare un sistema di tassazione internazionale che sia promotore di maggiore equità e multilateralismo.
Lo scontro Big Tech-Australia è solo l’ultima puntata di una battaglia globale per la delimitazione degli onori, e gli oneri, delle multinazionali tecnologiche, potenze economiche globali la cui crescita meteorica ha sparigliato le carte dell’economia mondiale. L’erogazione di servizi più immateriali, più fluidi, le ha rese il bersaglio di regulators in tutto il mondo. Ma la comunità internazionale – nella forma dell’OCSE – non è ancora stata capace di rispondere con norme aggiornate.
Perciò una serie di autorità (incluse quelle europee) hanno approvato nuovi regimi unilaterali di tassazione delle attività digitali. Alcuni Paesi, come l’Australia e la Francia, si sono già mosse in questo senso. Probabilmente il motivo per cui Big G, temendo le prossime mosse degli altri governi, coglie la palla del G20 al balzo e gioca d’anticipo.
“Per diversi anni, i governi del mondo si sono incontrati all’OCSE per riformare il sistema internazionale di imposte sulle imprese. Non sorprende che il successo non sia arrivato velocemente. Questo non è un compito facile, ma rimane decisivo”, apre l’intervento Karan Bhatia, già Rappresentante per il Commercio sotto George W. Bush, ad oggi vicepresidente della sezione Affari Governativi e Politiche Pubbliche di Google.
Mentre il mondo si risolleva dalla pandemia, continua il rappresentante, una cornice che faciliti il commercio globale e gli investimenti internazionali serve più che mai. Bhatia mette l’accento sull’incontro del G20, “un momento importante per dare un impulso a questo processo” e un banco di prova per il multilateralismo globale, rinvigorito dall’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca.
La questione principale, spiega Bhatia, non è quanto pagare, ma dove; il 20% degli utili mondiali di Google finiscono in tasse, ma l’80% di questi, a causa del regime di tassazione corrente, è pagato negli Stati Uniti dove Alphabet, la parent company, è basata. Storicamente, queste regole “attribuiscono una fetta minore di profitti ai Paesi dove i servizi sono consumati, lasciando il grosso dei diritti di imposizione ai Paesi nei quali i prodotti e i servizi vengono creati”.
Occorre dunque una riforma in grado di bilanciare questa situazione a favore dei Paesi “consumatori”, secondo Google. Con l’esplicito obiettivo di falciare le tassazioni unilaterali che la compagnia definisce “discriminatorie” e approdare a un sistema uniformato, privo di doppi o tripli balzelli e meno suscettibile agli umori dei singoli Paesi.
“L’introduzione di misure fiscali unilaterali è effettivamente controproducente rispetto all’obiettivo prefissato dell’OCSE; le migliori soluzioni sono senz’altro quelle che discendono da interventi condivisi, che garantiscono equità e coerenza all’intero sistema fiscale internazionale” ha commentato a caldo l’avvocato Sarah Supino, Dottore di Ricerca presso la LUISS e esperta di tassazione digitale. La soluzione proposta da Google non è una novità, è effettivamente quella a cui aspirano anche le altre multinazionali, siano esse digitali o meno.
Concentrarsi sul tassare l’economia digitale, secondo l’esperta, porta fuori strada. La pandemia ci ha dimostrato quante attività possano essere digitalizzate, dunque non si tratta di colpire le aziende tecnologiche, ma piuttosto di ripensare l’intera economia globale che va digitalizzandosi.
Il problema nasce a monte, negli anni venti del secolo scorso, per la precisione, quando si costruirono le fondamenta della fiscalità internazionale oggi conosciuta, che scelse di privilegiare l’imposizione negli stati di residenza, relegando all’imposizione alla fonte un ruolo secondario. Normale che il regime internazionale, cento anni dopo, sia un po’ datato.
Eppure la volontà della fiscalità internazionale, allora come ora, è quella di rimuovere le barriere commerciali, favorendo gli scambi economici internazionali e la ridistribuzione della ricchezza tassabile nei diversi Paesi. L’introduzione di un’imposta diversa per ogni nazione sortisce esattamente l’effetto opposto, fa notare Supino, cioè non fa altro che introdurre proprio quelle barriere commerciali.
Gli strumenti giuridici per creare un’infrastruttura comune, continua l’avvocato, ci sono. La decisione di usarli, però, è politica. E se, ad esempio, l’Europa rimane sul piede di guerra e gli USA su posizioni di protezionismo, saranno tutte le parti a patire ciò che non è più un conflitto tra stati e aziende, ma tra stati e stati.
“Si tratta di venirsi incontro reciprocamente. Tutte le parti dovranno convenire per rimeditare insieme l’assetto fiscale mondiale, anche per dare certezza alle imprese che operano sul mercato globale”. E il G20 è un ottimo forum per affrontare la questione, conclude Supino; con la presidenza dell’Italia in corso, non sia mai che il nostro Paese possa intestarsi la risoluzione di una questione così annosa.