Alle porte della terza ondata del coronavirus, con il nuovo esecutivo che ha cambiato molti vertici, ecco su cosa può puntare ora il ministero della Salute per essere più efficiente. Il commento di Giuseppe Pennisi
Con i cambiamenti nelle posizioni apicali della Protezione civile e del commissario straordinario all’emergenza, si è, senza dubbio, posta la premessa per un cambio di passo nelle gestione di una pandemia di cui già si vede una terza ondata; essa potrebbe essere più terribile delle precedenti a ragione della maggiore infettività delle numerose varianti che, originate verosimilmente altrove, stanno mietendo vittime in varie parti d’Italia.
Fu vera svolta? Ci si potrebbe chiedere prendendo a prestito un noto verso del 5 Maggio del Manzoni. Data la gravità immanente della situazione, non sembra sia il caso di lasciare ai posteri l’ardua sentenza. È una prima mossa di grande rilievo, ma resta ancora molto da fare.
In primo luogo, come rileva uno studio della Fondazione Open Polis, al ministero della Salute prevale la continuità. Al vertice politico, è stato sostituito solo uno dei due sottosegretari, con un uomo politico di cultura ed estrazione centrista. È una continuità di indirizzo politico che si spiega con l’opportunità di non cambiare tutti i cavalli nel mezzo della pandemia, nonché nel fatto che il ministro ed il sottosegretario confermati hanno avuto buoni riscontri nei sondaggi dell’opinione pubblica, che ha apprezzato la determinazione del primo e la competenza anche tecnica del secondo.
Non è chiaro – ed è un nodo cruciale – se verrà confermato nel suo incarico il Segretario generale del ministero, Giuseppe Ruocco, con cui il sottosegretario appena rinominato ha avuto feroci scontri anche in materia di aggiornamento o meno di piano per le emergenze sanitarie. Secondo la normativa, la riconferma deve essere effettuata entro 90 giorni del voto di fiducia con il quale il governo è entrato in carica; senza riconferma esplicita l’incarico decade. In una fase cui mezza Italia è travolta dai nuovi contagi e sta entrando in una grande “zona rossa”, ai vertici del ministero sarebbe auspicabile lavorare con concordia.
È urgente, poi, ripensare il rapporto Stato-Regioni in materia di sanità. Di fronte alla pandemia, anche la parte politica che nel 2001 propose e varò la riforma del Titolo V della Costituzione (a fine probabilmente elettoralistici) è convinta che è stato un errore. Non certo possibile una nuova legge costituzionale, il cui iter richiederebbe almeno due anni. Tuttavia, come ha puntualmente sottolineato il giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, le pronunce della Consulta del 14 gennaio e del 24 febbraio scorso affermano chiaramente che la lotta alla pandemia è competenza “esclusiva dello Stato” dato che è un nodo di “profilassi internazionale”. E senza dubbio, utile avere un dialogo Stato-Regioni per tenere conto delle varie situazioni sul territorio, ma il dialogo, leale e produttivo, non può comportare ritardi in azioni che sono nella competenza “esclusiva” dello Stato.
Inoltre, come ha ben ricordato il prof. Cesare Greco sulla testata Il Commento Politico del 4 marzo “non è più rinviabile una riforma della medicina del territorio che porti al domicilio dei cittadini, soprattutto fragili, anziani e soli, la diagnostica e la somministrazione di terapie che oggi la tecnologia digitale consente, anche utilizzando adeguatamente le competenze professionali paramediche che le nostre università formano nei loro corsi di laurea, sia triennali che magistrali, riducendo significativamente la pressione sugli ospedali e i pronto soccorsi”.
La pandemia è il grimaldello per riorganizzare, con legge ordinaria, i medici di base o di famiglia e le loro aggregazioni o associazioni come le Usca (Unità sanitarie di continuità assistenziale) che si sono sviluppate in alcune parti d’Italia e non in altre (e che consentono a raggruppamenti di medici di disporre di una segretaria o di un’infermiera e di operare su un lungo arco di ore). La pandemia ha dimostrato che questo è il livello essenziale per individuare le malattie, prestare le prime cure e non intasare pronto soccorsi e ospedali con pazienti che possono essere curati a casa propria. La mia esperienza personale di economista con la valigia che quando era più giovane girava il mondo è che queste associazioni erano molto efficaci nel Regno Unito e soprattutto in numerosi Länder della Repubblica Federale Tedesca.
In Italia la situazione è perlomeno confusa. Accanto a “dottori” di grande valore ci sono situazioni che ricordano Il Medico della Mutua, il film del 1968 diretto da Luigi Zampa con un eccezionale Alberto Sordi, dieci anni prima della creazione del Servizio sanitario nazionale. La normativa prescrive che il medico di medicina generale garantisce l’assistenza sanitaria indistintamente a tutti i pazienti a lui iscritti. Si assicura di promuovere e salvaguardare la salute in un rapporto di reciproca fiducia e rispetto. Sceglie le forme di assistenza più adeguate anche attraverso l’associazionismo medico. Ha il dovere di tutelare da un lato la salute complessiva dei propri assistiti utilizzando le risorse con rigore scientifico e senza sprechi. Obiettivi ambiziosi. Difficili da raggiungere con il sistema vigente in cui i medici sono liberi professionisti “convenzionati”.
In particolare, attualmente la medicina sul territorio è costituita principalmente da medici di medicina generale “convenzionati” con un rapporto professionale con il pertinente ramo del Ssn (di solito una Ulss o una Asl). Il rapporto prevede 18 ore settimanali di prestazioni. Ne possono certamente fare molte di più. Sono retribuiti con un compenso “capitario” (il numero dei cittadini/ potenziali pazienti) iscritti – come nel film di Zampa – e con un pagamento che varia dalla prestazione (visita, vaccinazione, ecc.) secondo un tariffario. Stime da parte di sindacati del settore affermano che un medico di base o di famiglia che si dedica interamente alla sua attività “convenzionata” può avere ricavi mensili (al lordo delle tasse) di 10.000 euro. Forme associative permettono di ridurre i costi a carico di ciascun medico e di ampliare i servizi. In breve, di estendere sul territorio una rete di ambulatori.
Sarebbe certamente auspicabile stabilire un rapporto differente con il Ssn: ossia di dipendenza con retribuzione variabile a seconda delle ore che ci si impegna a prestare. Ciò faciliterebbe lo sviluppo non su base puramente volontaristica di medicina “in gruppo” oppure di medicina “in rete” per garantire al cittadino un servizio migliore e offrirgli la possibilità di rivolgersi a uno degli altri medici associati in caso di urgenza e in caso di assenza del proprio medico. Soprattutto per le prestazioni non rimandabili al giorno successivo (anche se solamente si ha bisogno urgentemente di un certificato o della prescrizione di un farmaco) e nel rispetto degli orari e delle modalità organizzative dei singoli studi. Un ministero della Salute, dove regni la concordia, potrebbe promuovere, dopo concertazione con i sindacati del settore, tale riassetto. La crisi diventerebbe anche una straordinaria opportunità. E la svolta avrebbe una reale sostanza.