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Export militare, basta ipocrisie. Il monito del gen. Tricarico

Revoca delle autorizzazioni, iscrizioni nel registro degli indagati per l’Uama, interruzioni dei rapporti diplomatici, polemiche interne del tutto ideologiche. L’export militare è attraversato in Italia da perdurante e radicata ipocrisia. Il generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, spiega come evitarlo, per una vera e utile revisione della legge

 

L’esportazione di materiali della Difesa è questione contraddistinta in Italia da perdurante e radicata ipocrisia, declinata in molteplici forme a seconda degli specifici dossier. Né la legge che regola il settore viene in soccorso, essendo essa ormai nei fatti difficilmente applicabile ed abbisognevole di una radicale rivisitazione sulla base di criteri più coerenti con gli scenari geopolitici ormai profondamente mutati negli ultimi trent’anni, tanti quanti ne sono trascorsi dal varo della legge 185/90.

In merito al postulato più spinoso di detta legge che vieta l’esportazione di armamento a Paesi in stato di conflitto o che violano i diritti umani, una rapida mappatura di scenario vedrebbe restringersi in maniera inaccettabile il possibile mercato e non giustificherebbe il tenere in vita un’industria della difesa il cui azionista di riferimento è tra l’altro lo Stato. Per contro, a ben vedere, vi sono non pochi paesi amici ed alleati che pur non in regola con il rispetto dei diritti umani o essendo in stato di conflitto armato, non vengono colpiti dal rigore della 185/90.

Per andare all’attualità concreta, che senso ha intestardirsi nella protesta contro il governo egiziano di Al Sisi per la detenzione in carcere di un loro cittadino, Patrick Zaki, quando da noi sono in stato di custodia cautelare, ossia senza giustizia definitiva, il 33% dei detenuti (circa 20.000 persone) e nessuna voce di protesta si leva altrettanto alta contro il nostro sistema giudiziario? Insomma, nel settore andrebbe fatta chiarezza, partendo dalla fissazione preliminare di alcuni concetti chiave che al momento paiono, agli attori di quest’altra commedia all’italiana poco chiari o inapplicati.

Il primo tra questi, perché più frequentemente disatteso, è che la politica estera di un Paese non può che essere figlia dei soli interessi nazionali; non ci può essere una intersezione continua tra peculiari singoli accadimenti con un Paese e i rapporti complessivi con lo stesso. La tragedia di Giulio Regeni è senz’altro la circostanza più probante di come un fatto, per quanto crudele e condannabile, non possa di per se stesso determinare un sostanziale rovesciamento dei rapporti con l’Egitto, alla qualità dei quali sono fortemente legati lo sviluppo, la sicurezza, e gli interi equilibri geopolitici dell’area.

Discorso concettualmente simile si può fare per la decisione dello scorso gennaio di sospendere la fornitura di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, un evento che consente di mettere a fuoco un secondo concetto da tener presente per una revisione delle norme. La decisione in questione è stata assunta dal ministro Luigi Di Maio, apparentemente in solitudine, una decisione annunciata sui social media, della quale non si rinviene traccia né in resoconti del consiglio dei Ministri, né tantomeno in atti parlamentari o dello stesso ministero degli Esteri: la rottura di un patto con un altro Paese non può essere il risultato della valutazione di un singolo ministro, guidato magari dal richiamo della foresta del partito di appartenenza, il quale evidentemente ritiene che gli impegni sottoscritti possano essere alla mercé degli umori giornalieri e strappati senza un minimo di concertazione istituzionale interna.

Il secondo concetto è quindi che le decisioni relative all’esportazione di armamento debbano essere assunte dal vertice di governo nel suo complesso, (come tra l’altro prevedeva inizialmente la legge 185/80 prima di una improvvida modifica) e non come accade ora, da un funzionario di medio livello della Farnesina, il capo di un Ufficio (Uama) che materialmente firma le autorizzazioni dopo essersi coordinato con funzionari di pari livello degli altri ministeri. Saranno solo delle speculazioni giornalistiche, ma qualche giorno fa alcune testate riferivano che due capi pro tempore di Uama erano stati iscritti nel registro degli indagati in merito all’autorizzazione per la vendita di bombe all’Arabia Saudita; si tratterà pure di una della tante bizzarrie del nostro sistema, ma un danno collaterale per i due incolpevoli diplomatici non è per nulla da escludere.

Un terzo punto sul quale riflettere riguarda la costruzione di un’identità europea nel settore specifico; tutto sommato i Paesi membri sembrano concordi sui principi cardine di una normativa comune, non dovrebbe essere difficile individuare comportamenti e regole comuni. Almeno in teoria. Anche e soprattutto perché non è un mistero che in alcuni rapporti internazionali gli interessi di singoli paesi europei possano divergere o confliggere tra loro tanto da non far escludere iniziative spregiudicate o colpi bassi. Qualcuno parla ad esempio della possibile interferenza esterna nelle nostre relazioni con l’Egitto di qualcuno in Europa cui il nostro legame sempre più virtuoso con Al Sisi rompeva le uova nel paniere.

Da ultimo, nel breve termine, un risultato minimo a portata di mano senza insormontabili problemi sembra quello di poter ricorrere alla formula G2G, che impegni il governo a “mettere la faccia” oltre che la firma nelle trattative commerciali. I benefici collaterali non tarderebbero a venire con la verosimile apertura della strada ad ulteriori successi. Nel contempo andrebbe avviata una vasta operazione di affratellamento con tutti i Paesi possibili con cui stringere rapporti di cooperazione nel settore della difesa e della sicurezza, tutti framework approvati dal Parlamento all’interno dei quali muoversi con maggior confidenza, sottraendo la materia alle pulsioni del neofita di turno nominato ministro.


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