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Papa in Iraq, una rivoluzione antropologica. Parla padre Monge

Il vero dialogo si instaura non tra religioni intese come semplici sistemi dottrinali, ma tra credenti in carne ed ossa capaci di rimettere al centro una fede che coincida davvero con una “buona notizia per l’umanità”. Conversazione di Formiche.net con il sacerdote domenicano Claudio Monge

Da poche ore papa Francesco è atterrato a Roma, concludendo così la sua visita storica in una terra, l’Iraq, che, come lui stesso ha spiegato prima di congedarsi, rimarrà per sempre nel suo cuore. Sentimento ricambiato dal presidente iracheno Barham Salih, che in un tweet scrive: “La sua presenza, segno di pace e amore, resterà per sempre nei cuori di tutti gli iracheni”. Arrivato nel Paese a maggioranza sciita come “pellegrino di pace”, accolto da tanti segni di festa e di ospitalità, il Pontefice è quindi ripartito con un messaggio chiaro, pronunciato durante il volo di ritorno nel suo consueto dialogo con i giornalisti: “Carità, amore e fratellanza sono la strada”.

“Credo che, per una volta, il termine ‘storico’ non sia abusato”, spiega in questa conversazione con Formiche.net padre Claudio Monge, domenicano, direttore del Centro di documentazione e formazione interculturale e religiosa DoSt-İ di Istanbul, dove vive da quasi 18 anni, e nominato nel 2014 da papa Francesco Consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. “È davvero facile constatare che questo viaggio rappresenta una ‘prima volta’ per molti aspetti: in un Paese a maggioranza sciita, al cuore di una società profondamente ferita ed instabile (era dai tempi di Pio XII tra le macerie del bombardamento di San Lorenzo a Roma, che non si vedeva un papa in mezzo a tanta desolazione), nelle sabbie mobili di una diversità cristiana di tradizioni e riti che non sono mai stati in perfetta armonia (mai visto prima un papa presiedere un’Eucarestia in rito non latino), per non parlare del momento attuale di pandemia globale…”

Qual è il significato delle immagini che abbiamo visto in questi tre giorni, e delle parole che abbiamo ascoltato?

Bisogna riconoscere che, per chi segue da vicino il Magistero di papa Francesco (fatto di gesti e di incontri, importanti almeno quanto i discorsi e i documenti ufficiali), questo viaggio fortemente voluto (e già sognato da San Giovanni Paolo II) è perfettamente coerente con quanto il Vescovo di Roma ripete fin dal primo giorno del suo mandato e con quanto, più sistematicamente, sta dicendo dalla firma del famoso Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza, di Abu Dhabi, passando per le Encicliche Laudato Sii e Fratelli tutti: chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti, assumendosi quotidianamente il compito, anche rischioso, di curare, senza preferenze e distinzioni, le ferite dell’umanità.

L’Iraq è la terra in cui si intrapresero i primi passi della storia della salvezza, mentre oggi è terra di martiri, di violenze, di paure. Dove i cristiani non ci sono quasi più. Riuscirà Francesco nell’impresa di riportare la pace in questi luoghi, o meglio di dare una scossa alla popolazione locale che la spinga in questa direzione?

A dire il vero, neppure la Palestina e Israele o la Turchia e la Siria, a proposito di Terre Sante della storia della salvezza, se la passano troppo bene. Quanto all’emorragia di cristiani, se ci limitassimo ai dati statistici, il Paese in cui vivo, che ha accolto quattro papi negli ultimi 45 anni, non può neanche lontanamente pensare ad un’accoglienza pubblica, con tanto di autorità politiche presenti anche a degli eventi religiosi o folla in festa lungo le strade, come abbiamo visto in questi tre giorni nella Piana di Ninive e nel Kurdistan iracheno! Questo viaggio di papa Francesco obbliga tutti ad una profonda riflessione, lanciando messaggi che richiederanno anni per essere davvero somatizzati, sperando che non vengano prima “addomesticati” e, quindi, disinnescati nella loro portata. La scossa c’è stata a tutti i livelli, ma pace e stabilità politica, sociale e religiosa, sono il frutto di lunghi processi e non di colpi di bacchetta magica.

Qual è il punto su cui andrebbe posta maggiore attenzione?

Credo che il tema numero uno, e ritorniamo al Documento sulla fratellanza, sia quello di una cittadinanza inclusiva e questo, ribadito esplicitamente ed implicitamente decine di volte in una terra come l’Iraq che è per eccellenza un mosaico di religioni ed etnie, di appartenenze fieramente identitarie e in parte autoreferenziali, i cui rapporti nella storia sono stati per lo più regolati con la forza o la brutalità delle leadership di turno, interne o internazionali.

Lei da anni si occupa di dialogo interreligioso e di “teologia dell’ospitalità”. Qual è il senso profondo del dialogo tra le fedi e tra i popoli che invoca il papa? Soprattutto, come può realizzarsi? Come si può cioè passare dalla violenza reciproca alla convivenza?

Attraverso una rivoluzione antropologica ben prima che teologica. Detto sinteticamente: il vero dialogo si instaura non tra religioni intese come semplici sistemi dottrinali, ma tra credenti in carne ed ossa capaci di rimettere al centro una fede che coincida davvero con una “buona notizia per l’umanità” e che è, quindi, indissociabile dal riconoscimento e dalla cura di ciò è autenticamente umano, denunciando ciò che è disumano! Papa Francesco che introducendo la preghiera di suffragio per le vittime della guerra, presso Hosh al-Bieaa a Mosul, dice “Se Dio è il Dio della vita – e lo è –, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace – e lo è –, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è –, a noi non è lecito odiare i fratelli”, afferma implicitamente che “la cura” dell’umano e la responsabilità nella sua difesa, sono via privilegiata per riconoscere il Dio in cui si dice di credere, presente nella storia!

Il papa ha parlato di false immagini di Dio, del dolore del fratricidio e della guerra, del danno incalcolabile della fuga dei cristiani, contro la fedeltà dell’amore del Padre e del Dio dell’alleanza. 

Ogni affermazione meriterebbe lunghe considerazioni. Parlare di false immagini di Dio, ad esempio, è molto più radicale che fare una mera distinzione “tra buoni e cattivi credenti”, perché identifica implicitamente, come atto di idolatria (sostituzione del vero Dio con un’immagine propria di Dio, che è idolo) ogni violenza in nome di Dio. Dunque, chi uccide dicendo “Dio lo vuole”, è blasfemo e il fanatismo religioso non è mero problema sociologico, ma una malattia della vita spirituale che porta al “fratricidio”: cioè ad uccidere non un nemico, o semplicemente un “estraneo” al tuo mondo, ma un fratello/sorella, una creatura che condivide con te una sacralità che deriva dalla comune matrice divina.

Francesco ha anche invitato a seguire l’esempio dei santi e a intraprendere la strada del perdono. Ma è possibile?

Umanamente parlando è impossibile, quando si sono attraversati gli abissi della violenza e dell’odio. Ma l’appello di Francesco è, in questo caso, da credente a credenti: il perdono umano non può che essere radicato nel perdono del Cristo in croce! Aggiungerei però una cosa: la storia delle terre da decenni martoriate da una violenza inaudita, dimostra anche che “l’occhio per occhio” non fa che moltiplicare la sofferenza per generazioni…

Bergoglio lo ha detto chiaramente: “Cessino quegli interessi esterni che si disinteressano della popolazione”. Ci sono anche delle responsabilità internazionali che vanno messe in luce, o i primi attori e fautori della loro storia sono proprio gli iracheni?

Il Principio di sovranità nazionale, come diritto di autodeterminazione della comunità socioculturale, identificata nella nazione, è tra i più affermati e, nello stesso tempo, disattesi. Finché non c’è la netta percezione di una storia comune da condividere, finché gli interessi cosiddetti “nazionali” non sono che espressione di una parte, che reprime tutte le altre senza coinvolgerle, è impossibile l’affermazione di un una sovranità nazionale, che si fondi su bene sociale, libertà e progresso. Ma al di fuori di questo quadro, le interferenze internazionali si moltiplicheranno e, in genere, come espressione di interessi particolari (in genere su base economica: le famose “guerre del petrolio” spacciate come difesa della democrazia) e non certo come espressione di un “diritto di ingerenza” per la tutela dei diritti umani.

A Najaf abbiamo visto l’Ayatollah Al Sistani alzarsi in piedi e invocare la pace per gli iracheni. 

Uno dei meriti di queste coraggiose iniziative di papa Francesco, uomo di fede e di pace, coraggioso tessitore di relazioni, è quello di mettere in luce la diversità e gli interessi particolaristici che emergono al cuore di fronti che sembrerebbero monoliticamente coesi, ma non lo sono. La sua proposta è esigente e suscita la necessità di un confronto urgente all’interno dell’universo islamico stesso e non solo in ambito cristiano e in un quadro interreligioso. La strada che l’ha portato a Najaf è passata dal Cairo, poi da Abu Dhabi e quindi per Rabat. Dopo aver sollecitato un dibattito interno al mondo Sunnita, cercando come sponda l’impegno della scuola giuridica malikita nel contrasto dell’estremismo religioso, con una lettura aperta e conciliante dell’Islam (che provoca un necessario confronto con l’imperialismo saudita, incline a favorire l’islam del puritanesimo wahhabita, usato come strumento di dominio a fini economici), ora cerca sponda nell’universo sciita. Ma la sorpresa è che non si rivolge direttamente all’Iran e alla scuola teologica di Qom (con la quale, per altro, il Vaticano ha buoni rapporti), che sostiene la teocrazia politica degli ayatollah imposta in Iran dalla rivoluzione khomeinista del 1979, ma guarda al vecchio leader carismatico, Sistani, rappresentante della corrente tradizionalista sciita della hawza di Najaf, il più importante seminario teologico dello sciismo iracheno.

Chi è e che cosa pensa Al Sistani?

L’ayatollah Sistani considera ogni potere temporale privo di legittimazione, dal momento che, secondo la credenza religiosa, questa è esclusiva prerogativa del Mahdi, il dodicesimo imam della shia, la guida della comunità di fede che la teologia duodecimana ritiene temporaneamente occultato. Questi tornerà, messianicamente alla fine dei tempi per instaurare il Regno della Giustizia. L’auspicio di una relativa autonomia della politica dalla religione, intrinseca al quietismo attendista, ha portato Sistani ad essere uno strenuo oppositore dell’aberrazione del Califfato islamico che ha ridotto l’Iraq, e non solo, in macerie. Un “pacificatore” al quale Francesco guarda con rispetto, proprio in nome dei principi affermati nel Documento sulla Fratellanza umana e nella speranza che le minoranze non siano prese in ostaggio da ulteriori sanguinose guerre di potere!

Si potrebbe dire che i semi gettati dal Papa con la Dichiarazione congiunta del Documento sulla Fratellanza umana stanno avendo i primi frutti? 

Chiaro, si tratta di un cammino molto lungo e che richiede perseveranza e pazienza. Ma c’è un elemento che mi sembra importante sottolineare: quella che Francesco ha chiamato una “guerre mondiale a pezzetti” sta infrangendo il sogno di futuro di troppe generazioni. Quello che sembra solo un esigente appello alle donne e agli uomini di fede, corrisponde in realtà al più radicato e naturale sogno di ogni essere umano: uscire da un’esistenza che è semplice tentativo di sopravvivenza nel presente, per poter sognare un futuro da offrire in eredità ai propri figli.

Qui ritorno alla domanda: come renderlo possibile?

Bisogna abbandonare le prospettive particolaristiche, il ripiegamento sulla ricerca solo del proprio benessere. Papa Francesco lo ripete: “Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri”. La pandemia ci ha fatto comprendere che “nessuno si salva da solo”… Nelle tempeste che stiamo attraversando non ci salverà l’isolamento, non ci salveranno la corsa a rafforzare gli armamenti e ad erigere muri, che anzi ci renderanno sempre più distanti e arrabbiati. Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore. La via che il Cielo indica al nostro cammino è un’altra, è la via della pace.


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