Papa Francesco indica la via all’Occidente e la premura dimostrata nello scegliere proprio questo momento per organizzare il suo viaggio apostolico dovrebbe risvegliare più di un attore della scena internazionale sull’urgenza di attivare i canali necessari per arginare il fenomeno del fondamentalismo religioso e del terrorismo connesso. La riflessione di Paolo Romani, senatore di Cambiamo
È in quella mezzaluna fertile che ha avuto inizio la nostra civiltà, caratterizzando gran parte della storia dell’uomo, della sua cultura, della sua arte, della sua violenza, del suo sapere. Nella terra in mezzo ai due fiumi che si incontrano proprio nella città di Ur, dove forse papa Francesco ha compiuto uno dei gesti più simbolici del suo viaggio apostolico: la visita alla casa di Abramo, patriarca dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam. Un messaggio di pacificazione la cui potenza sta sicuramente nella frase “noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione”, ma ancor di più nelle immagini che resteranno.
Da non credente ciò che più apprezzo dell’opera di Bergoglio è la costruzione di un dialogo interreligioso che basa la sua efficacia sulla magistrale scelta degli interlocutori. Un lavoro che non nasce oggi, ma che papa Francesco porta avanti da anni, scegliendo, per esempio, nel 2019 di incontrare l’Imam sunnita egiziano Al Tayyeb, esponente della tradizione mistica del sufismo e in contrapposizione netta ai Fratelli Musulmani, interlocutori prescelti da alcune potenze occidentali.
In Iraq, in questi giorni, papa Bergoglio ha incontrato invece Al Sistani, il Grande Ayatollah sciita: scegliendo anche questa volta un interlocutore più affine dal punto di vista religioso, le due dottrine presentano, infatti, aspetti essenziali o organizzativi similari, ma distinguendo all’interno dell’Islam sciita, negletto dalle cancellerie occidentali. Al Sistani infatti si differenzia nettamente dall’Iran sciita khomeinista proprio per la sua contrarietà all’uso politico della religione.
Una capacità dunque tutta politica, che trova le sue radici nella bimillenaria storia della Chiesa, grazie alla quale già papa Giovanni Paolo II seppe intercettare, anticipare ed agevolare la caduta dell’ideologia comunista nelle sue applicazioni più cruente e liberticide in Europa. E forse non è un caso che entrambi non siano di nazionalità italiana, cosa che ha consentito loro di avere una visione più aperta ai fenomeni mondiali.
Nella vicina Siria, restando sempre in quelle terre una volta fertili di civiltà oggi madide di guerre, ebbi modo personalmente di incontrare i rappresentanti delle diverse chiese cristiane: dal Patriarca Romano Cattolico, Youssef Absi, all’Arcivescovo greco melchita, Jean-Clement Jeanbart, e ancora il presbiteriano l’ortodosso e il maronita. Quello degli uomini di religione in Siria fu un coro unanime: questo regime non sarà democratico alla maniera occidentale, ma è in grado di tutelare tutte le confessioni religiose, le minoranze e i gruppi etnici.
In quell’equilibrio tipico delle società mediorientali dove solo una minoranza può tutelare tutte le altre minoranze e non sarà mai in grado di sopraffare la maggioranza. Equilibrio impossibile laddove a governare fosse al contrario una maggioranza, che per quanto illuminata, finirebbe per schiacciare le minoranze. Una scelta di campo e di sopravvivenza, quella delle confessioni cristiane in Siria, che non è mai stata appoggio incondizionato al regime di Assad, anzi, ma che sicuramente prendeva le distanze dall’islam dei Fratelli Musulmani di Idlib.
Si può dunque affermare che la mezzaluna verde ha trovato in papa Francesco l’interprete più alto della capacità di comprensione del mondo occidentale.
D’altronde, in quelle terre, l’Occidente è ricordato come quella parte di mondo, definito civilizzato, che ha inventato prove inesistenti per giustificare un’invasione; che non ha mai approfondito la differenza fra Islam sunnita ed Islam sciita; che ha confuso le millenarie Ziggurat per depositi di armi di distruzione di massa; che ha scatenato i peggiori demoni inespressi e trattenuti dalle rigide norme delle società tribali capaci di convivere grazie alle regole scritte dalle storie e nella storia di gruppi sociali, clan e famiglie. Nulla a che fare con le nostre democrazie rappresentative e con le nostre libertà borghesi; ma quanta consapevolezza in più nel riconoscimento delle diversità, anche e soprattutto, religiose.
La comprensione delle dinamiche interne alla seconda religione più diffusa al mondo, e del combinato disposto con la realtà di società tribali, consentirebbe di affrontare con maggior consapevolezza fenomeni quali il terrorismo fondamentalista e l’instabilità regionale. Troppo spesso l’Occidente ha immaginato di esportare in punta di baionetta o di sibilo di drone modelli rappresentativi inadatti a società profondamente diverse e complesse come quelle mediorientali.
Papa Francesco, dunque, indica la via all’Occidente e la premura dimostrata nello scegliere proprio questo momento per organizzare il suo viaggio apostolico dovrebbe risvegliare più di un attore della scena internazionale sull’urgenza di attivare i canali necessari per arginare il fenomeno del fondamentalismo religioso e del terrorismo connesso.
Chissà che il messaggio non arrivi anche in Italia, i cui confini della politica estera sembrano sempre più ristretti fra le burocrazie europee e le alleanze tradizionali. Assi fondamentali, certo, che non hanno però sempre brillato per le azioni in Medioriente. Forse è proprio questo che papa Francesco aveva tanta fretta di dirci.