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Atlante della censura digitale. La libertà passa anche per Minecraft

Il controllo delle informazioni nel Ventunesimo secolo ha molte facce. Un viaggio nella censura digitale di regimi autoritari, Paesi più democratici, e una sbirciata ai sistemi più creativi per eluderla

Come si presenta un tecnoregime

Reporters Sans Frontiers (RSF) ha scelto la giornata mondiale contro la censura digitale per rilasciare il suo nuovo report sulla Cina, che si posiziona al 177° posto su 180 nell’indice mondiale della libertà di stampa stilato dall’ONG. Compito non facile, quello di sorvegliare 989 milioni di utenti digitali, ma il regime cinese non si è mai scoraggiato: l’apparato censorio del Dragone, secondo RSF, non è mai stato così potente.

I dati ufficiali del regime sono discutibili, quelli indipendenti scarseggiano, ma la fotografia dettagliata di RSF restituisce un’immagine a dir poco distopica. La sorveglianza è affidata all’Amministrazione del Ciberspazio cinese, entità supervisionata personalmente dal presidente Xi Jinping, che nel 2013 annoverava un esercito di 2 milioni di censori (certamente cresciuto da allora). Questo leviatano, componente cruciale del Great Firewall of China, ha consumato almeno 6,6 miliardi di dollari nel 2020.

Nell’anno del Covid, ossia quand’era imperativo esercitare uno stretto controllo sul flusso di informazioni, più di 2,000 parole associate al virus facevano drizzare le antenne ai censori su WeChat, il social cinese più diffuso in assoluto (73% degli utenti locali). Tra gennaio e settembre 2020 il governo cinese ha oscurato 12,000 siti e 130,000 account di social media – e il 16% dei domini più cliccati secondo il ranking globale Alexa Top 1000 non sono accessibili al di là della Muraglia.

Insomma, quello cinese non è internet come lo conosciamo, ma un intranet ben delimitato e sorvegliato. L’Iran (173° nell’indice RSF) è l’unico altro Paese al mondo ad aver “quarantenato” i propri utenti in maniera simile. Promette “bene”, invece, la Russia di Vladimir Putin (149°), dove la versione locale di un intranet è già stata sviluppata e testata “con successo” secondo fonti ufficiali. C’è però ancora speranza per i fan di un internet aperto: tagliare la Russia fuori dal mondo potrebbe rivelarsi un passo più lungo della gamba per il Cremlino.

Il sistema si basa sugli ISP (Internet Service Provider), ossia le compagnie a cui si paga l’abbonamento a internet, le quali oscurano una serie di domini secondo una lista fornita dalle autorità statali. Per ora un utente con VPN (Virtual Private Network) può schermare la propria trasmissione di dati e “bucare” il muro digitale con facilità. L’esistenza stessa di proteste coordinate online e di milioni di russi che seguono il giornalista anticorruzione Alexei Navalny sul web testimoniano l’incompletezza dello strumento censorio russo.

In attesa della stretta definitiva, il Cremlino sperimenta con soluzioni ibride – come impedire l’accesso ai server VPN noti o rallentare il traffico verso siti specifici – anche se più rozze: due giorni fa, tentando di “strozzare” il traffico dati di Twitter, il governo russo ha bloccato moltissimi altri domini “innocenti”, tra cui alcuni siti governativi. Una storia già vista nel 2018 con l’applicazione di messaggistica criptata Telegram.

La sfera digitale dei russi è sempre stata quasi totalmente aperta al resto del mondo, servizi occidentali come Google e YouTube sono ben radicati, e “chiudere” i rubinetti digitali a 144 milioni di cittadini potrebbe avere ripercussioni troppo pesanti per l’intero sistema-Paese. Dunque la soluzione di Putin è controllare anziché bloccare, ma questa potrebbe essere una sfida superiore alle forze del Cremlino, ha detto Natalia Krapiva, avvocato specializzata in tecnologia, a Rest of World.

La questione è ancora più chiara prendendo in esame la Bielorussia (153°), dove i cittadini sono ancora in rivolta contro il presidente Lukashenko dalla scorsa estate. L’”ultimo dittatore d’Europa” ha accompagnato la soppressione violenta delle proteste civili con l’arresto e la censura di giornalisti, blogger, attivisti. Eppure, grazie alle app come Telegram e ai server esteri, i manifestanti riescono ancora ad organizzarsi eludendo le autorità statali.

Naturalmente, questo breve excursus non esaurisce i tecnoregimi (o aspiranti tali) in esistenza: la lista di stati con velleità censorie è ancora lunga.

Mappa della libertà di stampa globale. Fonte: RSF

Tra l’etica e la geopolitica

Attenzione, però: la censura online non è appannaggio esclusivo dei regimi autoritari. Ne è la dimostrazione l’India (142° nell’indice RSF) sotto Narendra Modi, colui che, stando al Guardian, prometteva un internet libero in campagna elettorale. Qui il controllo passa per vie legali: il pacchetto di leggi appena approvato porta tutto quello che accade online sotto un meccanismo di regolamentazione del governo, a cui è concesso il potere di rimuovere contenuti “sgradevoli” e quello di scavalcare la privacy degli utenti, anche su social media e servizi di messaggistica criptati come il popolarissimo WhatsApp. La sorveglianza, stavolta, è affidata direttamente alle piattaforme digitali.

Essendo che la democrazia indiana respira ancora, questi provvedimenti sono stati immediatamente osteggiati dall’industria tech e dai media, e una causa è stata depositata presso l’Alta Corte di Delhi. Il quotidiano nazionale The Hindu, solitamente restìo a criticare il governo indiano, si è fatto sentire tramite un editoriale dal titolo “Un lupo nei panni di un guardiano”.

Poco più in là, il Pakistan (145°) ha appena bannato TikTok, la popolarissima app cinese di condivisione video, per via del “contenuto immorale” che ivi vi appare. L’Alta Corte di Peshawar avrebbe deciso che alcuni video caricati dagli utenti erano “inaccettabili” per gli standard della società pakistana, anche se i dettagli scarseggiano. Il primo ministro Imran Khan aveva già criticato la app tacciandola di promuovere lo “sfruttamento, oggettivazione e sessualizzazione” di ragazze minorenni.

Se questa ultima storia suona familiare, è perché solo qualche mese fa era l’America di Donald Trump a voler bandire l’app cinese, anche se per motivi totalmente diversi. L’app rischia di essere anche uno strumento di tracciamento nelle mani del Dragone (motivo per cui è sotto il microscopio di svariati stati e dell’Unione europea), e farla saltare avrebbe anche avvantaggiato gli Stati Uniti, da cui provengono la stragrande maggioranza dei social, da un punto di vista commerciale: una questione geopolitica oltre che etica.

L’India ha preferito la strada più diretta mettendo a bando centinaia di app cinesi, tra cui TikTok, lo scorso novembre. I motivi sono gli stessi di cui sopra, esacerbati dalle tensioni crescenti con la Cina nelle regioni confinanti. Senza contare la questione alleanze: Modi ha già scelto con chi stare nel contenzioso globale tra Stati Uniti e Cina.

TikTok, tra le applicazioni più contestate del momento

Occidente e contromisure

L’Occidente globale rimane l’infosfera digitale più libera, dove si può dibattere sulla linea tra privacy e protezione senza che lo Stato decida per i propri cittadini. Nel Ventunesimo secolo la censura digitale e la libertà di stampa sono metriche che vanno di pari passo, e l’indice di RSF parla chiarissimo. L’Italia è al 41° posto, risultato decente ma non invidiabile.

Guardando la questione dal punto di vista dei tecnoregimi, è proprio la libertà di stampa occidentale delle “tecnodemocrazie” a costituire il problema principale: l’accesso a notizie e informazioni non controllabili. Ed è sempre l’Occidente a fornire i migliori strumenti con cui bypassare i regimi censori, basati sulla criptografia, come i server schermati “a cipolla” del Tor Network, dispositivi e programmi criptati. Chi cerca protezione digitale può trovarla facilmente.

Tornando al punto di vista occidentale, il problema è un altro: consentire l’accesso al “vero” internet a chi vive in un tecnoregime. Nuovi problemi richiedono nuove soluzioni. Tra quelle più creative e fruibili in esistenza vale la pena evidenziare il caso della Uncensored Library, un progetto sostenuto da RSF: una libreria virtuale che “vive” in un server del popolarissimo videogioco Minecraft, un mondo virtuale frequentato da più di 126 milioni di persone al mondo. Il giocatore si ritrova proiettato in una struttura immensa, divisa per Paesi, e può accedere a contenuti, articoli e persino libri interi che sarebbero altrimenti inaccessibili.

Finora le “stanze” della Uncensored Library annoverano Egitto, Messico, Russia, Arabia Satdita e Vietnam, ma in occasione del primo compleanno del progetto RSF ha provveduto ad aggiungere Brasile e Bielorussia, entrambi Paesi in cui la libertà di stampa è in via di peggioramento. Il link per la libreria, che è aggiornata costantemente, viaggia sui social con l’hashtag #TruthFindsAWay (“la verità trova una strada”) ed è stata scaricata da più di 300,000 persone, le quasi possono fungere da punti di accesso.

Schermata della libreria digitale di RSF
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