Dopo un anno dallo scoppio della pandemia emergono i primi dati che mostrano come questa crisi sanitaria stia fortemente colpendo il mercato del lavoro, con gravi conseguenze per le condizioni sociali ed economiche della popolazione europea e mondiale. Il Pd dovrebbe tenerne conto
Il nuovo segretario del Partito democratico (Pd), Enrico Letta (che ho la fortuna di conoscere e di stimare da quando, ventiquattrenne, collaborava con l’allora ministro degli Esteri Beniamino Andreatta) ha posto sul tavolo – non è chiaro se delle riflessioni del Pd o dell’azione di governo – due temi – lo jus soli ed il voto ai sedicenni– che possono essere divisivi per un esecutivo e un Parlamento che hanno come priorità assolute la guerra alla pandemia e la ripresa. Non ha però invece posto in prima linea la lotta alla povertà ed all’esclusione sociale – argomenti che mi si trovato a trattare varie volte nella mia vita professionale e che dovrebbero nelle vene del Pd, nonché fare parte delle politiche della ripresa se tali politiche devono significare anche una riduzione delle diseguaglianze.
La settima scorsa, l’Istat ha pubblicato dati agghiaccianti sull’aumento della povertà in Italia. In questi ultimi giorni, la Fondazione Open Polis ha offerto una interessante analisi comparata a livello dell’Unione europea (Ue). In breve, tra il 1975 e il 1999, prima la Comunità economica europea e poi l’Ue hanno prodotto programmi specifici rivolti alla lotta alla povertà. Dal 1999, gli Stati dell’Ue hanno concluso una serie di trattati che avevano tra gli obiettivi la riduzione della povertà. Tra questi, in particolare quello di Amsterdam (1999) che sottolinea la necessità di una cooperazione tra tra gli Stati per contrastare tale condizione di disagio. Mentre con il Trattato di Lisbona (2007), e in particolare con la firma al Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (Tfue) si pongono le basi giuridiche in materia di povertà ed esclusione sociale.
L’effettiva svolta nella lotta alla povertà dell’Ue è rappresentata dal piano strategico Europa 2020. Un’agenda proposta nel 2010 dalla Commissione che stabiliva cinque obiettivi da raggiungere entro il decennio. Tra questi, la riduzione del 25% degli europei a rischio povertà ed esclusione sociale, cioè 20 milioni in meno:
- grave deprivazione materiale, cioè la situazione in cui si trova chi non può permettersi alcuni beni e servizi fondamentali. Dall’affitto al riscaldamento, dalle bollette del telefono alla lavatrice, dalla possibilità di andare in vacanza al possesso e mantenimento di una macchina;
- rischio di povertà, in cui si trova chi guadagna meno del 60% del reddito mediano nazionale;
- bassa intensità di lavoro, cioè la condizione di una famiglia dove gli adulti (18-59 anni) lavorano meno del 20% del proprio tempo di lavoro potenziale.
Negli ultimi venti anni, prima della pandemia, la povertà diminuisce in tutta l’Ue, escluse Italia, Spagna e Grecia. L’andamento della quota di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale nell’Ue segue dinamiche diverse fra i vari paesi membri. Ha un calo lieve ma uniforme negli stati del nord Europa, come la Germania, i Paesi Bassi e il Belgio. Fanno eccezione la Svezia, dove la percentuale aumenta dal 14,4% del 2005 al 18,8% del 2019, e il Lussemburgo, dal 17,3% al 20,6%. Nei paesi dell’Europa dell’est (Polonia, Slovacchia, Ungheria) e nei paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), la percentuale diminuisce invece in modo significativo. Al contrario, in diversi paesi del Sud Europa le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale restano stabili o aumentano: ad esempio in Italia il dato è stabile al 25,6%, mentre in Grecia e in Spagna aumentano rispettivamente dello 0,6% (da 29,4% al 30%) e dell’1% (dal 24,3% al 25,3%). L’eccezione in questo caso è costituita dal Portogallo, che ha un calo dal 26,1% al 21,6%.
Dopo un anno dallo scoppio della pandemia emergono i primi dati che mostrano come questa crisi sanitaria stia fortemente colpendo il mercato del lavoro, con gravi conseguenze per le condizioni sociali ed economiche della popolazione europea e mondiale. I dati Eurostat mostrano quanto la disoccupazione sia aumentata nel corso di un anno: dal terzo quadrimestre del 2019 a quello del 2020, il numero di lavoratori occupati è calato di quasi 3,5 milioni nei paesi del’Unione europea, pari al -1,8%. Questa situazione sottolinea l’urgenza di strumenti e aiuti finanziari per limitare quanto possibile l’aumento di persone in condizioni a rischio di povertà o esclusione sociale. Occorre una nuova strategia, anche e soprattutto nel percorso europeo di contrasto alla povertà. A livello Ue, ciò ha comportato innanzitutto una revisione di quella che era la proposta di bilancio per il 2021-2027, presentata dalla Commissione europea nel 2018. È stato innanzitutto istituito nel 2018 un ulteriore fondo di aiuti per gli stati europei, il Fse +. Solo nel periodo 2007-2013 il fondo sociale europeo (Fse) ha aiutato quasi 10 milioni di persone nell’Unione a trovare un posto di lavoro. Il Fse+ ha dunque l’obiettivo di incentivare ulteriormente i paesi nel proseguire con gli sforzi fatti nella lotta contro la povertà. La Commissione ha previsto che il fondo sia rinnovato con una dotazione di bilancio di 101 miliardi di euro, accorpandolo al già esistente Fse e ad altri aiuti europei, tra cui il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (Feg). Quest’ultimo in particolare si distingue dal Fse, che agisce in una prospettiva più strategica e a lungo termine, mentre il Feg offre ai lavoratori un sostegno individuale e limitato nel tempo. Inoltre, è uno strumento trasversale alla lotta della povertà, in quanto è volto a offrire un sostegno a coloro che hanno perso il lavoro a seguito di importanti mutamenti strutturali del commercio mondiale dovuti alla globalizzazione, come a seguito della crisi economica del 2008 e dell’attuale crisi sanitaria.
Questo quadro europeo, reso possibile dalle analisi di Open Polis, mostra una volontà di razionalizzare e di mirare meglio strumenti e finanziamenti. Il Pd, un cui esponente è ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, dovrebbe chiedersi se uno sforzo analogo sia stato fatto o sia sta facendo in Italia. La misura più significa, introdotta negli ultimi anni, è il così detto “reddito di cittadinanza”, che si è aggiunto al “reddito di inclusione” ed altri istituti esistenti a livello statale, regionale, e comunale e si è agganciata ad una confusa e criticatissima riforma delle politiche attive del lavoro, modellata su schemi – pare – in atto nel Mississippi, uno dei più piccoli (tre milioni di abitanti) degli Stati degli Usa. In breve, è un’area dove c’è molto da fare.
Innanzitutto, occorre razionalizzare “reddito di cittadinanza” e “reddito di inclusione” al fine di raggiungere una migliore efficienza, efficacia ed incidenza. Ciò deve voler dire fare gli accertamenti prima e non dopo per evitare di elargire aiuti – come riportano le procure – non ai poveri ma a narcotrafficanti, evasori, prostitute, lenoni e via discorrendo. Ciò può volere dire fare sì che gli aiuti non sia gestiti centralmente ma a livello il più vicino possibile a chi sa individuare i veri poveri, le forme di sollievo e quelle di uscita dalla “trappola della povertà”: i comuni e nelle grandi città i municipi. Ciò significa non prendere ad esempio gli schemi del Mississippi (che pare siano falliti anche lì) per tentare di coniugare uscita dalla povertà con inserimento nel mercato del lavoro ma quelli che avuto successo nell’Ue (ad esempio, in Francia ed in Germania) o si vuole guardare agli Usa studiare lo Stockton Economic Empowerment Demonstration, preso a modello da altre città.
Ciò avrebbe anche un importante effetto politico: dimostrare, con i fatti, che il Pd non è più subordinato ai miti pentastellati.