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Se il Dragone si arma (hi-tech). Ecco la strategia militare della Cina

Oltre alle tecnologie dirompenti, per la “Nuova era” (quella del rafforzamento, qiangqilai), la Cina ha dedicato sulla Difesa grande attenzione alla “fusione militare-civile”. Conversazione con Simone Dossi, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università Statale di Milano, e non-resident research fellow del Torino World Affairs Institute

Il problema strategico della Cina è riassunto nell’espressione yi lie sheng you, cioè “sconfiggere il più forte da una posizione di inferiorità”. In questo senso, le nuove tecnologie offrono a Pechino grandi opportunità per “aprirsi spazi di superiorità locale in un contesto di persistente inferiorità generale”. Parola di Simone Dossi, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università Statale di Milano, non-resident research fellow del Torino World Affairs Institute (T.wai), grande conoscitore del Dragone d’Oriente. Lo abbiamo raggiunto per capire come (e perché) Pechino persegue da tempo un deciso rafforzamento delle sue capacità militari. Con il XIV Piano quinquennale, ha spiegato il Partito, si punta ad “approfondire la riforma della difesa nazionale e delle forze armate”. Attenzione in particolare alle nuove tecnologie, al cyber-spazio, alle nicchie disruptive (come ipersonica e droni) e alla complessiva “informatizzazione” della Difesa nazionale

Partiamo dai numeri. La Cina ha reso noto il budget militare per il 2021, per un incremento del 6,8% rispetto all’anno precedente. Come interpretarlo?

Il bilancio militare per il 2021 conferma un trend di lungo periodo. Inizialmente a doppia cifra, il tasso di crescita su base annua è sceso al di sotto del 10% nel 2016, sino a raggiungere l’anno scorso il 6,6%, il dato più basso negli ultimi tre decenni. Si trattava, tuttavia, di un dato condizionato dal rallentamento economico prodotto dalla pandemia ed era quindi prevedibile, per quest’anno, un tasso di crescita superiore, parallelamente alla ripresa economica. Il bilancio militare per il 2021 non introduce quindi elementi di novità: conferma, piuttosto, l’attenzione dedicata al processo di modernizzazione militare e all’allocazione delle necessarie risorse. Il bilancio militare cinese è oggi secondo solamente a quello americano, anche se non vanno dimenticate le proporzioni: secondo le stime del Sipri (che sommano al bilancio militare ufficiale voci ulteriori, come i costi aggiuntivi per ricerca e sviluppo), nel 2019 le spese della Cina in ambito militare erano pari a meno di un terzo di quelle americane.

Pechino ha anche detto che nel nuovo Piano quinquennale sono da intensificare gli sforzi per rafforzare la Difesa. Il tema sta scalando le priorità nell’agenda cinese?

Anche a questo proposito non direi che osserviamo un cambiamento nell’ordine delle priorità. L’attenzione per la modernizzazione delle Forze armate è un elemento di lungo periodo e fa parte del programma di complessivo rafforzamento del Paese nella cosiddetta “Nuova era” che, secondo il discorso ufficiale, sarebbe iniziata con il XVIII Congresso nazionale nel 2012. Non a caso, la “Nuova era” di Xi Jinping è identificata in questo stesso discorso ufficiale come l’era in cui la Cina “si rafforza” (qiangqilai), dopo l’era di Mao in cui la Cina si era “rialzata” (zhanqilai) e l’era di Deng in cui si era “arricchita” (fuqilai). Sotto questo profilo, l’aspetto che a mio parere meriterà maggiore attenzione nell’attuazione del nuovo piano non è tanto il “quanto” della modernizzazione militare bensì il “come”.

E come?

Molta attenzione è stata dedicata in questi anni alla cosiddetta “fusione militare-civile” (jun-min ronghe), cioè all’integrazione fra settore della difesa e settore civile (pubblico e privato) per ridurre i costi e facilitare i processi di innovazione.

Come si traduce questo oltre i confini della Cina? C’è più hard power nella postura internazionale?

Non necessariamente. Le risorse di hard power, inteso come potere militare, restano per la Cina risorse di ultima istanza rispetto a un ventaglio molto ampio di strumenti disponibili (politici, economici, culturali). Certo, il potenziamento delle capacità militari cinesi non è privo di implicazioni per gli equilibri internazionali, ma è necessario operare una distinzione fra due diversi orizzonti spaziali. Se guardiamo all’orizzonte globale, le capacità cinesi di proiezione “out of area” restano alquanto limitate, nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, per esempio con l’inaugurazione della prima base militare all’estero a Gibuti nel 2017. Non si tratta in ogni caso di capacità tali da alterare gli equilibri esistenti in contesti regionali distanti dall’Asia orientale, come ad esempio il Mediterraneo allargato. In questo più ampio orizzonte globale, la proiezione cinese si è anzi prevalentemente inquadrata in contesti cooperativi, con implicazioni positive per la stabilità internazionale. È il caso della partecipazione cinese alle operazioni di contrasto della pirateria nel Golfo di Aden e alle operazioni di peacekeeping (la Cina è prima, e di gran lunga, fra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per personale dispiegato in operazioni di peacekeeping).

E a livello regionale?

All’interno dell’orizzonte regionale, invece, la modernizzazione militare della Cina contribuisce ad alimentare una più complessa dinamica di competizione. In particolare, in Asia orientale è in corso una decisiva partita fra Cina e Stati Uniti: una partita che, sul terreno della sicurezza, va sempre più assumendo i caratteri di un gioco a somma zero.

A proposito, tra le Forze armate, è la Marina cinese che sembra crescere in assertività, attiva in tanti bacini di interesse di Pechino (a partire dal Mar cinese meridionale). È davvero così?

Proprio i bacini marittimi dell’Asia orientale sono oggi il teatro principale di questo gioco a somma zero. Da tale punto di vista, più che le reciproche accuse di assertività scambiate da Cina e Stati Uniti, mi sembra rilevante la dimensione strutturale della competizione fra i due attori. Sul piano della sicurezza, infatti, gli interessi in gioco nell’Asia orientale marittima sono oggettivamente contrapposti.

Ci spieghi meglio.

Da un lato la Cina intende proteggere quelli che identifica come propri “interessi essenziali”, a partire dalla questione di Taiwan sino alle rivendicazioni sulle isole Spratly, Paracel, Senkaku e sugli spazi marittimi circostanti. Per proteggere questi interessi, Pechino ha da tempo investito nel potenziamento di quelle che nel lessico dottrinale americano vengono identificate come capacità di “anti-access/area denial” (A2/AD), cioè capacità funzionali a impedire a un potenziale avversario di accedere alla regione o funzionali a limitarne la libertà d’azione una volta che vi abbia avuto accesso. Si tratta di un processo di lungo periodo: sin dalle sue origini negli anni Ottanta, la modernizzazione navale cinese ha puntato in particolare sul potenziamento di capacità di interdizione in acque regionali e questa resta tuttora la priorità.

E per quanto riguarda gli Usa?

Dall’altro lato, per gli Stati Uniti, è essenziale preservare il proprio “accesso operativo” all’Asia orientale marittima, cioè la propria capacità di proiettare potenza nella regione. Come notava quasi due decenni fa Barry Posen, il potere egemonico degli Stati Uniti continua a fondarsi in ultima istanza sulla capacità di proiettare potenza ovunque nel globo, grazie al dominio degli “spazi comuni” (mare, aria, spazio extra-atmosferico). È da questa capacità di accedere militarmente ai diversi contesti regionali e di operarvi liberamente che dipende la credibilità stessa dell’impegno americano a difesa dei propri alleati. Nell’Asia orientale marittima, il potenziamento delle capacità cinesi di A2/AD prefigura costi crescenti di accesso militare per gli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni sulla credibilità americana agli occhi degli alleati asiatici e implicazioni reputazionali (e non solo) che si estendono ben oltre la regione. È questa dinamica strutturale a spiegare la crescente competizione che caratterizza l’Asia orientale marittima ormai da dieci anni a questa parte.

La competizione in campo militare con gli Stati Uniti pare ormai concentrata sulle nuove tecnologie (cosiddette disruptive). Pechino si sente davanti agli Usa in questa corsa?

Come dimostra anche il nuovo Piano quinquennale, la Cina attribuisce valenza strategica al progresso nel campo delle nuove tecnologie. Va però sottolineato che l’importanza attribuita a questo ambito deriva precisamente dalla percezione di una persistente inferiorità rispetto a potenziali avversari, a partire dagli Stati Uniti. Questa percezione è evidente, per esempio, nel dibattito strategico cinese sullo spazio cibernetico.

Cioè?

Secondo gli osservatori cinesi, lo spazio cibernetico va inteso come dominio multidimensionale in cui sfera politica, economica, ideologica e militare sono strettamente interconnesse. In questo dominio multidimensionale, la Cina si percepisce tuttora in posizione di inferiorità rispetto agli Stati Uniti, che si ritiene esercitino una vera e propria “egemonia cyber” in forza del proprio “dominio monopolistico” su alcune tecnologie critiche. Il problema strategico, per la Cina, resta quindi quello classico di come “sconfiggere il più forte da una posizione di inferiorità” (yi lie sheng you). In questo senso, le nuove tecnologie offrono anche potenziali opportunità: l’acquisizione di avanzate capacità in alcune specifiche nicchie consentirebbe, si ritiene, di farne un uso asimmetrico. Si tratta insomma di aprirsi spazi di “superiorità locale” in un contesto di persistente inferiorità generale.



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