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Perché non dobbiamo dimenticare il Libano. Scrive Emanuela Del Re

Di Emanuela Del Re

Il Libano resti al centro delle nostre politiche come merita, con il supporto per lo sviluppo di un vero sistema di governance degno del Paese centrale che è. Auspico che si creino dei programmi integrati per aiutare la società civile a potenziare le sue strategie che già hanno dato prova di essere estremamente incisive nella costruzione della stabilità. Il commento di Emanuela Del Re, già viceministro degli Esteri

Nel pieno della pandemia, il Libano si prepara a celebrare la Pasqua cristiana e l’Eid Al Fitr nel mese di aprile. Verrà imposto il lockdown come misura di contrasto alla diffusione del Covid-19. Non sarà un periodo di festa facile per una popolazione che si sta ancora riprendendo dagli effetti devastanti dell’esplosione a Beirut ed è ancora oppressa da gravi problemi economici e sociali.

La ricostruzione va a rilento anche perché nonostante gli aiuti internazionali l’economia è in ginocchio. La questione della mancata attribuzione delle responsabilità dell’accaduto esaspera il clima sociale con accuse al governo e alla magistratura di scarsa trasparenza. Mi sono recata nella mia veste di vice-ministra di allora in Libano pochi giorni dopo l’esplosione per portare aiuti, e ho potuto vedere con i miei occhi la devastazione, che diventava altamente simbolica oltre che oggettiva in una situazione già complessa.

Simbolica perché acuiva il senso di smarrimento dei libanesi. Parlando con numerosi rappresentanti della sempre vibrante società civile libanese, animata da grande impeto – alcuni dei quali conosco da anni – emergeva come questione ricorrente è stata il futuro e il presente dei giovani. Il Paese ha visto partire il 10 per cento della popolazione nell’ultimo anno, e tanti ancora se ne andranno a causa della paralisi politica e dell’economia al collasso. E quelli che restano? La situazione è grave, dicono coloro che lavorano nelle comunità, perché la crisi corrode i valori della società e pian piano distrugge le strutture sociali. Chiedono aiuti dai Paesi amici per l’educazione alla cittadinanza, per la governance.

Sono convinta, sulla base delle mie osservazioni nel Paese negli anni, che la società libanese da sempre stigmatizzata come spaccata sulla base delle appartenenze religiose in realtà di fronte alla crisi che si è andata acuendo abbia reagito in modo sano, operando forme di riconciliazione spontanea tra le persone, le comunità; ma la popolazione non sente il conforto della comprensione e del sostegno da parte delle élite e del governo le cui decisioni e azioni stagnano, e questo non consente di completare il processo, che pure è ancora tanto necessario, di riconciliazione tra tutte le parti a livello nazionale. L’esodo è sintomo di un malessere che non può restare inascoltato.

Il ministro degli Esteri francese, Jean-Ives Le Drian, lancia con enfasi appelli per il Libano. Alla vigilia del Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue del 22 marzo scorso a cui ha partecipato il nostro ministro Luigi Di Maio, ha ripetuto che l’Europa deve agire urgentemente perché il Libano sta crollando. Il 4 febbraio Le Drian aveva rilasciato insieme a Blinken, segretario di stato Usa, una dichiarazione congiunta a sei mesi dall’esplosione avvenuta nel porto di Beirut. Nella dichiarazione vi è un riferimento alle azioni intraprese insieme alle Nazioni Unite, alla società civile e ai partner per far fronte all’emergenza. Francia e Usa chiedono al sistema giudiziario libanese che le indagini sulle cause e sulle responsabilità dell’esplosione arrivino rapidamente a conclusione, in trasparenza e senza interferenze politiche. E insistono sulla necessità di riforme che siano in sintonia con le aspirazioni del popolo libanese.

Gli Usa, come afferma lo stesso Dipartimento di Stato in era Biden, sono un partner primario del Libano in ambito sicurezza (hanno erogato due miliardi di Usd dal 2006 alle Forze Armate Libanesi). Anche sul piano dell’assistenza umanitaria gli Usa hanno sostenuto il Paese con oltre due miliardi di Usd soprattutto dall’inizio della crisi siriana che ha visto il Paese diventare destinazione di rifugiati che oggi sono più di 1,5 milioni. Il legame della Francia con il Paese dei cedri è storico ed economico, nonché culturale (basti pensare all’importanza della diaspora libanese in Francia, formata da circa 210mila persone). Per la Francia il Paese è strategico in Medio Oriente dal punto di vista politico perché è da sempre considerato un modello di democrazia plurale e stabile nella regione con una società multietnica e multireligiosa cui viene garantita la rappresentanza attraverso un sistema di power-sharing. Un sistema che però si è rivelato imperfetto. Numerose analisi evidenziano che questa forma di consociativismo politico ha reso fragile lo Stato, con conseguenti forme di settarismo, instabilità istituzionale, clientelismo e un generale scontento nella popolazione. Nonostante le fragilità, il Libano resta il Paese democratico più stabile del Medio Oriente arabo. Vi è forte consapevolezza della necessità di aiutare il Libano.

Il Libano è in terza posizione nel mondo per l’altissimo rapporto debito-Pil, con gravi conseguenze come il dover pagare alti interessi. Le manifestazioni contro quello che il governo – definito corrotto – si ripetono ormai dal 2019. Oggi i libanesi protestano anche per le nuove tasse, mentre le panetterie chiudono. Dopo l’esplosione vi è stato un cambio di governo ma deve essere accompagnato da un cambio di passo, a cominciare dalle riforme economiche, che dovrebbero essere incentrate sulla finanza pubblica e sulla solidità del sistema finanziario. Molti analisti sostengono che se non si risolve la questione finanziaria il Paese non può rinascere: bisogna assicurare la solvibilità finanziaria, elaborare un nuovo sistema di tassazione, mettere un limite alla fuoriuscita di capitali e allo stesso tempo attrarre investimenti stranieri diretti (Fdi). C’è anche la questione delle imprese statali in costante perdita, e la necessità di creare ammortizzatori sociali. Il problema sta anche nella credibilità delle banche, perché per i donatori è fondamentale poter contare su strutture affidabili per l’erogazione di fondi.

In questo contesto, la buona notizia è che il Paese può contare su buoni amici, e non solo Francia e Usa. Quando Emmanuel Macron ha organizzato la conferenza dei donatori all’indomani dell’esplosione nell’agosto 2020, i partner hanno risposto donando 250 milioni di euro. L’Italia, la cui ambasciata a Beirut costituisce una rappresentanza attivissima sia sul piano degli aiuti sia del nostro ruolo nel Paese, ha insistito perché gli aiuti beneficiassero direttamente la popolazione libanese. Oltre agli interventi fondamentali della Cooperazione allo Sviluppo, alle iniziative del Ministero della Difesa, e alle iniziative per proteggere i sititi culturali, continuano le missioni di sicurezza Unifil e Mibil – fondamentali per la stabilità nella regione – e la collaborazione con le Forze Armate Libanesi (Fal). Oltre me, subito dopo l’esplosione, si sono recati nel Paese anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e il premier Giuseppe Conte.

La volontà c’è da parte di molti, ma vi sono ostacoli seri tra cui il fatto che Hezbollah continua ad essere un attore difficile nel panorama politico libanese, suscitando atteggiamenti diversi anche tra i Paesi membri dell’Ue.

La Pasqua e l’Eid Al Fitr verranno celebrate in un contesto di tensione sociale e politica, ed è per questo che tanti rappresentanti della società civile mi hanno chiesto di aiutare nella formazione al dialogo e alla tolleranza le nuove generazioni di leader religiosi, che hanno un ruolo fondamentale.

Nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue, tenutosi a marzo, il Libano viene citato insieme a Turchia e Giordania, invitando la Commissione a presentare una proposta al Consiglio per continuare a erogare fondi per i rifugiati siriani in quei paesi e in altre parti della regione.

È evidente che è necessario che si elabori un piano articolato per dare risposte strutturali alle fragilità del Paese, uscendo dalla mentalità della reazione alle emergenze. Alcune forme di “emergenza” diventano fattore costante e quindi non sono più emergenza ma problema intrinseco. Auspico che si creino dei programmi integrati per aiutare la società civile libanese a sviluppare le sue strategie che già hanno dato prova di essere estremamente incisive nella costruzione della stabilità, e che il Libano resti al centro delle nostre politiche come merita, aiutandolo a sviluppare un vero sistema di governance, degno di un Paese centrale come il Libano.

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