Nel 1979 Gerardo Bianco fu eletto capogruppo Dc alla Camera sfidando da outsider il numero due dell’allora segretario Zaccagnini, Galloni. La vittoria del peone, il deputato qualunque che non conta nulla e che deve solo eseguire le comande del capo dunque, a marcare un gesto di autonomia che rimase nei libri di diritto. Qual è la differenza tra quell’episodio e oggi? La rubrica di Pino Pisicchio
Antefatto: il nuovo segretario del Pd Enrico Letta è impegnato in un’alacre attività di riforma del suo partito, a partire dal necessario riallineamento ai dettami della political correctness, partendo dal ripristino dell’equilibrio di genere. E, siccome al governo la rappresentanza femminile del Pd è stata dichiarata insufficiente, il segretario ha stabilito che si sarebbe dovuta operare una correzione. Come? Cambiando i capigruppo di Camera e Senato. Dopo un breve tentativo di resistenza da parte degli interessati, è stato compiuto (con impercettibile mugugno) il nobile gesto delle dimissioni. Ieri è stata eletta capogruppo alla Camera l’on. Serracchiani. Auguri.
Il tema. Nulla da dichiarare sul merito politico: dal 2003 è chiarito persino in Costituzione (ciò che comunque già era detto nelle norme-principio), con l’art. 51 primo comma che, non solo l’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive è garantito a tutti i cittadini “dell’uno o dell’altro sesso” in condizioni di uguaglianza, ma anche che la Repubblica promuove le pari opportunità tra uomini e donne. Dunque tutto ok con l’art. 51 della Costituzione. Più problematico, forse, il rapporto con altri articoli, come il mai sufficientemente evocato 67, che scolpisce il divieto di vincolo di mandato.
La domanda da porsi, allora, è se l’impostazione politica del segretario non finisca per inciampare in qualcosa che ha a che fare con l’autonomia dei Gruppi parlamentari. Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari esistono intere biblioteche di scritti dottissimi di costituzionalisti che non è il caso di scomodare. Basterà riferirsi, per queste note, a quello che si rappresenta come pacifico: il partito politico si proietta nelle istituzioni parlamentari solo attraverso i Gruppi, associazioni (di parlamentari), libere e autonome a tal punto da non conoscere l’automatismo dell’adesione (se il parlamentare viene eletto nelle liste di un partito deve comunque, una volta proclamato, dichiarare a quale gruppo intenda iscriversi, potendo, evidentemente, sceglierne uno diverso da quello di appartenenza politica. art. 14 dei Regolamenti di Camera e Senato).
Dunque l’autonomia del gruppo parlamentare non tollera imposizioni dall’esterno, anche quando si tratta di un “esterno” politicamente così prossimo da sovrapporsi all’identità politica. Vero è che nelle nuove Repubbliche sembra questo un precetto abbastanza desueto, visto che l’autonomia del parlamentare è fortemente compromessa dalle leggi elettorali basate sulle liste bloccate: come si fa a dire no al Capo che ti ha messo in lista, cooptandoti in Parlamento, con la certezza che il tuo no lo pagherai con l’esclusione dalle liste nel prossimo giro? E infatti chi rifiuta qualcosa al Capo deraglia inevitabilmente verso il Gruppo Misto. Non così in altre stagioni, quando le leggi elettorali portavano in Parlamento rappresentanti scelti non dal capo-bastone ma dal corpo elettorale con il voto di preferenza.
1979: il segretario della Dc dell’epoca, Zaccagnini, apprezzato e conosciuto per la sua probità (“l’onesto Zac”), decide che alla presidenza del gruppo Dc alla Camera debba andare il suo numero due, Galloni, uno dei più importanti esponenti del nuovo corso del partito. Galloni era un intellettuale molto stimato, ma non particolarmente inserito nella vita parlamentare, come invece Gerardo Bianco, che presentò la sua candidatura in contrapposizione al candidato “imposto”. Manco a dirlo vinse Bianco e da allora cominciò a circolare nel lessico politico il termine “peone”, storpiatura della parola spagnola “peon” che sta ad indicare il bracciante sudamericano sfruttato in lavori pesanti e mal pagato.
La rivolta del peone, il deputato qualunque che non conta nulla e che deve solo eseguire le comande del capo, portò, dunque, a marcare un gesto di autonomia che rimase nei libri di diritto. Qual è la differenza tra quell’episodio e oggi? Ognuno di quei peones insofferenti al diktat portava con se un patrimonio di consensi personali che rappresentavano la garanzia della propria libertà e della propria autonomia. Oggi non più.