Nel caso Biot sono entrati in gioco Aisi, Ros, Stato maggiore della Difesa, la Procura e il Tribunale di Roma, ministero degli Esteri e pure la Procura militare. Giancarlo Capaldo, ex procuratore aggiunto a Roma e responsabile del pool antiterrorismo, riflette sull’opportunità di mantenere la giustizia militare in tempo di pace, davanti al rischio di conflitti di giurisdizione
L’arresto per spionaggio del capitano di fregata Walter Biot consente molteplici considerazioni.
La prima è quella della scarsa attenzione attribuita all’aspetto più grave della vicenda: Biot è, in primo luogo e soprattutto, un traditore della patria. Egli non ha commesso soltanto un reato, ma soprattutto ha mantenuto un comportamento inaccettabile sul piano civile e militare.
L’insensibilità, per questo profilo dell’episodio, trapela dalla mancanza di reazioni dell’opinione pubblica alle dichiarazioni che vengono attribuite alla famiglia dell’ufficiale e al suo difensore: esse, che già si dovrebbe far fatica a giustificare facendo ricorso alla natura affettiva dei rapporti e al diritto di difesa, appaiono paradigmatiche dello stato della nostra etica pubblica, quasi che l’aver famiglia giustifichi o attenui sul piano sociale una violazione così grave dei propri doveri di cittadino e di militare.
La seconda osservazione: è stata inevitabile la costruzione artificiosa del racconto ufficiale della storia non solo per tacere, comprensibilmente, particolari investigativi sensibili, ma anche per dimostrare l’efficienza del nostro apparato di controspionaggio e la compattezza della risposta dello Stato.
Corollario però di questa esigenza è stato forse il necessario ridimensionamento del danno informativo subito.
La terza osservazione: la valenza politica dell’evento, desumibile dal ricercato clamore mediatico della vicenda e dalla sua utilizzazione sul piano degli equilibri interni e internazionali. “Intelligenti pauca”.
La quarta, oggetto specifico del nostro approfondimento, quella del concorso, per una volta corale, delle nostre istituzioni.
Invero, a prescindere da eventuali input esterni che non prenderemo in esame ma che apparterrebbero anch’essi ai rapporti ordinamentali, nella vicenda intervengono l’Aisi, la nostra agenzia dei servizi segreti competente per il controspionaggio, il Ros, il raggruppamento speciale dei carabinieri competente per le indagini negli ambienti militari, lo Stato maggiore della Difesa, ufficio di appartenenza della spia Biot, la Procura della Repubblica di Roma, ufficio della giurisdizione ordinaria competente per territorio nella fase delle indagini in ordine ai reati di spionaggio e corruzione ascritti al Biot, la Procura militare di Roma, ufficio giudiziario competente per i reati militari, il Tribunale di Roma, giudice competente per la convalida del provvedimento restrittivo della libertà personale applicato al Biot, il Ministero degli Esteri, competente per il provvedimento di espulsione delle due spie sovietiche, complici di Biot, coperte dall’immunità diplomatica.
La confortante coralità non deve però farci sottovalutare, da un lato, la necessità di perfezionare e forse strutturare meglio gli strumenti di coordinamento per assicurarne la costante funzionalità anche dopo la fase iniziale e, dall’altro, di interrogarci ancora una volta sull’opportunità della coesistenza, nel nostro ordinamento in tempo di pace, della giustizia militare accanto a quella ordinaria.
Invero, attualmente, l’ambito operativo della giustizia militare è estremamente ristretto.
L’episodio della spia Biot potrebbe essere l’occasione per valutare la validità dell’attuale impianto istituzionale e decidere definitivamente se esista o meno ancora un valido motivo per mantenere in Italia la magistratura militare come istituzione attiva in tempo di pace.
Qualora si optasse per questa legittima posizione perché si avverte la necessità di un organo giudiziario specializzato in relazione alla specificità del mondo militare, si dovrebbe a mio avviso ampliarne la giurisdizione. Ciò per evitare che, su vicende fenomenicamente unitarie, possano esserci indagini di più soggetti pubblici (quali appunto procure ordinarie e militari) con possibili diversità di valutazione.
Mi rendo però conto che affrontare tale problematica ha un profilo estremamente complesso in quanto involve il più ampio problema dell’unicità della giurisdizione nel nostro Paese. E credo che i tempi oggi non siano maturi per affrontare ex professo un tema così delicato, in considerazione degli spazi impropri ulteriori già occupati dalla magistratura ordinaria.
Tuttavia, in alternativa a riforme epocali non maturate nella sensibilità istituzionale, il legislatore odierno potrebbe limitarsi a sopprimere la magistratura militare in tempo di pace con l’attribuzione della relativa giurisdizione agli uffici giudiziari ordinari distrettuali con la confluenza dei magistrati militari nel ruolo della magistratura ordinaria.
Questa scelta avrebbe attualmente come effetto positivo un immediato e non oneroso aumento dell’organico della magistratura ordinaria, una diminuzione delle spese complessive di sistema ed eviterebbe potenziali conflitti giurisdizionali con le ovvie ricadute negative sull’ordinamento.