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Transizione energetica e filiera italiana, i “mediani” forti che servono

Di Carmine Biello

L’Italia dovrebbe fare più rete e più gioco perché riesce a trattenere poco nell’economia nazionale della ricchezza prodotta dal settore dell’energia, nonostante i robusti incentivi a favore di solare, eolico e biomasse. Al Paese servono mediani “di razza”, quei campioni “silenziosi” come Gattuso o come Pirlo (per non andare all’ormai iconico Oriali) che hanno saputo dare nerbo e spina dorsale alla nostra nazionale

In Europa i prossimi saranno anni di sfide formidabili nel campo della Transizione energetica (Te): da qui al 2050 ci aspetta un ciclo epocale di investimenti destinati ad ammodernamenti, riconversioni e sostituzioni lungo l’intera filiera infrastrutturale del settore energia.

Probabilmente quello della Te sarà l’ambito economico che attrarrà la maggiore quota di investimenti nel mondo, almeno per un decennio.

Questa volta, peraltro, sembra che tutto avverrà in uno scenario di consenso (pressoché) unanime degli stakeholders e di abbondanza di liquidità (pubblica, ma soprattutto privata).

Attenzione, però: il settore energia è uno di quelli a più alta intensità di capitale, scandito da cicli che si misurano in decenni e capace di un effetto moltiplicatore importante (superiore a 2) sul resto dell’economia. Quindi quello che avverrà da adesso con la Te, fino al 2030 in particolare, inciderà in maniera profonda, nel bene e nel male, sui destini dei nostri Paesi per questo secolo.

I macro-trend sono ormai tracciati:
– Elettrificazione dei consumi;
– Abbandono delle fonti fossili;
– Supremazia delle fonti rinnovabili;
– Sviluppo dell’idrogeno.

Poi tanto altro ancora: efficienza energetica, smart grids, stoccaggi, generazione distribuita, cattura e utilizzo CO2. E tutto ciò non solo in Europa, ma anche in buona parte del resto del mondo.

Insomma, per esemplificare il campo di gioco: impianti, reti e opere connesse, in dosi massicce, in Europa e oltre.
Naturalmente le filiere industriali dei Paesi europei si stanno preparando per intercettare al meglio e al massimo questo imponente flusso di investimenti, cercando anche (ove possibile) di influire in qualche modo sulla sua stessa direzione, per orientarla verso i propri interessi o eccellenze nazionali.

E l’Italia? Subito una risposta rassicurante: siamo in una posizione molto buona tra le squadre di questo (agguerritissimo) campionato. Basti pensare ai passi importanti da noi già compiuti verso la decarbonizzazione, l’abbandono delle fonti fossili e lo sviluppo di quelle rinnovabili (e ad un “campione nazionale” come l’Enel, che è ora la prima utility europea per capitalizzazione e la prima al mondo nel campo dell’energia zero-carbon).

Tuttavia c’è un “ma”, una debolezza non trascurabile con cui dobbiamo fare i conti: andiamo poco in rete. Riusciamo cioè a trasformare poco il gioco che creiamo, riusciamo a trattenere poco nell’economia nazionale della ricchezza prodotta dal settore. Questo almeno fino ad ora e nonostante i robusti incentivi a lungo iniettati nel sistema a favore di nuove tecnologie (ad esempio, solare, eolico, biomasse, ecc.).

Di solito, a questo punto, il pensiero va subito a partite “epiche” che avremmo voluto vincere (come quelle per la produzione di pannelli solari o di aerogeneratori o di batterie) o che aspiriamo ora a vincere, nelle quali però c’è il rischio di risultare velleitari o dispersivi (anche se in Europa altri hanno fatto e stanno facendo meglio di noi).

Proviamo però a cambiare prospettiva: non è che forse pensiamo troppo e troppo presto al “tiro in porta” (ovvero all’arma tecnologica imbattibile, alla famosa killer application) e trascuriamo invece il gioco a centrocampo, quello laborioso, paziente, da tessere con giudizio, anche noioso, ma comunque votato a produrre spunti, passaggi, opportunità per andare in rete?

D’altra parte chi non penserebbe subito al fuoriclasse d’attacco, al campione che segna e incanta con un’acrobazia unica, che ci fa alzare le mani al cielo con un solo tocco. Quanti invece vorrebbero essere al posto del “mediano”, il giocatore che non si risparmia, che copre le spalle dei compagni, corre su e giù tutto il tempo, marca gli avversari (a volte anche con grande fisicità) e poi, se riesce a far segnare le punte, viene a stento ringraziato.

Eppure il mediano è quello che ha il compito preziosissimo di tamponare l’offensiva degli avversari, di recuperare tutti i palloni utili, anche quelli che apparentemente non lo sono, con tenacia, rigore, metodo, spesso con poco estro, ma con lo scopo di produrre gioco, occasioni, possibilità: quindi con la responsabilità finale di pensare, valutare e scegliere il gioco da proporre.

Forse dovremmo partire da qui per affrontare in maniera efficace il possente flusso di lavori in arrivo per la Te: proprio dalla mentalità razionale, pragmatica, “implacabile” dei grandi mediani.

In questo tipo di lavori c’è sempre una parte (consistente), considerata in genere poco attraente e gratificante, che prende il nome di balance of plant oppure balance of system, a seconda dei casi, e che riguarda tutto quello che c’è da realizzare oltre e intorno alle apparecchiature principali: ad esempio, tutto ciò che esclude gli aerogeneratori (il Bop, nel caso di un parco eolico) o i pannelli solari, se non anche gli inverter (il Bos, nel caso di un parco solare).

Si tratta di quella parte, poco visibile, che include una serie di attività interconnesse, interdisciplinari e tailor made (civili, elettromeccaniche, cablaggi, forniture, montaggi, avviamenti e tanto altro), che tuttavia può determinare l’esito finale di un’intera opera e che perciò richiede solide competenze tecnico/organizzative e grande attitudine all’adattamento, alla gestione della complessità, allo “stare in campo”, sempre e comunque: per dire, le capacità di un sarto, che deve fare di un ottimo tessuto un buon abito su misura.

Quella parte di lavori che viene assegnata all’impresa appaltatrice generale (il cosiddetto Epc Contractor), il soggetto che quindi assume in prima persona la responsabilità di integrare, completare e mettere in esercizio la realizzazione nel suo complesso: ciò che sa fare un vero mediano, dotato di visione (magari non di “piedi buoni”), bravo a coprire il campo, pronto a lottare nelle retrovie, a prendere possesso della palla e a produrre gioco. Si dirà: ma quella è la parte più povera, meno tecnologica, meno esclusiva. Vero, ma non del tutto.

Infatti, se pensiamo alle fonti rinnovabili, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una diminuzione spettacolare del costo delle apparecchiature principali (a livello sia assoluto che unitario) e in parallelo ad una fortissima pressione competitiva sui relativi margini, tendenza che è destinata a proseguire in maniera “spietata” (a meno di nuovi salti tecnologici). Il Bop e il Bos hanno invece mostrato una maggiore anelasticità (in termini di perimetro, di costi e di margini), andando così ad assumere un’incidenza relativa sempre più significativa sul totale del capitale investito (Capex): oggi pari almeno al 20%/30% (per l’eolico a terra), oltre il 30% (per l’eolico a mare) e oltre il 40% (per il solare fotovoltaico). Questo con una grande variabilità in base alle geografie (in alcuni casi si arriva già a superare il 50%) e con un’ulteriore prevedibile tendenza all’aumento di materialità, visto che i siti e le situazioni da affrontare in fase di realizzazione non potranno che diventare via via meno agevoli.

Basti pensare, a questo proposito, alla complessità di temi sensibili da gestire sul campo contemporaneamente, quali: la manodopera e le normative locali, il trasporto e in generale la logistica, i vincoli per l’uso delle aree, la qualità, il trinomio salute-sicurezza-ambiente (Hse). Temi, tra l’altro, che inevitabilmente non convergono quasi mai verso gli obiettivi sempre più stringenti dettati dai budget e dai cronoprogrammi.

È perfino immaginabile che proprio la parte di attività in questione possa presto diventare il fattore di successo o addirittura il criterio discriminante di fattibilità per molte opere di grande taglia nell’ambito della Te (in alcune geografie sicuramente).

Dunque parliamo di un compito (qualcuno direbbe un “lavoraccio”) che acquisisce comunque spazio, prospettiva, interesse e valenza nevralgica, meglio riconosciuta ora anche a livello di margini.

Ma c’è anche una portata “strategica” da considerare in questo compito, pur faticoso: la sua possibile funzione da traino, da pivot, da volano per il sistema industriale di un Paese.

Cioè la possibilità che esso offre di capitalizzare e diffondere le capacità più preziose di un “Epc Contractor” forte: come quella di saper stare continuamente “sulla frontiera”, quella di saper ottimizzare all’infinito, di avere attenzione esasperante ai dettagli, non a tutti (in maniera maniacale), ma a quelli che contano (in maniera ragionata). Ma anche (e soprattutto) la possibilità di aiutare a crescere la filiera industriale nazionale, ingaggiando nelle proprie sfide e nella propria (ossessiva) ricerca del miglioramento anche i sistemi-Paese di produzione, servizi, ricerca.

A me stesso è capitato più volte, con soddisfazione professionale, di riuscire a portare sul campo, per la prima volta, aziende italiane di valore e di vederle poi crescere fino ai vertici internazionali del loro comparto.

Non è un caso allora che i maggiori “campioni” della Te, quanto al ruolo di “Epc Contractor”, abbiano trovato vita proprio nei Paesi più avanzati in tale campo (Germania e Spagna, per rimanere in Europa). Ed è invece un peccato che da noi ad oggi non ne siano ancora emersi, a differenza di quanto avvenuto, ad esempio, nel campo delle infrastrutture.

E qui torniamo alla domanda che ci ponevamo prima: se in Italia dobbiamo cercare di andare di più in rete nella partita della Te, se cioè dobbiamo cercare di trasformare di più questo passaggio storico in ricchezza per il Paese, forse non dobbiamo pensare (sempre e solo) ad andare in porta, a cercare i nostri Messi o i nostri Ronaldo.

Forse dobbiamo pensare (anche, se non prima) a contrapporci meglio e a produrre più gioco. Allora probabilmente ci servono mediani “di razza”, quei campioni “silenziosi” come Gattuso o come Pirlo (per non andare all’ormai iconico Oriali) che hanno saputo dare nerbo e spina dorsale alla nostra nazionale. Quei “giganti” forti, generosi, avveduti che sappiano stare “lì, sempre lì, lì nel mezzo”.

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