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Una rivoluzione democratica russa è possibile? L’effetto Navalny secondo Carnegie

La maggioranza dei russi non ama Navalny ed è dipendente dallo status quo, ma le crepe nel sistema si stanno allargando – come si allarga il divario ideologico tra le generazioni. L’evento del Carnegie Moscow Center con Andrei Kolesnikov e Ekaterina Schulmann sviscera le proteste, il gradimento di Putin e le possibilità di una primavera democratica in Russia

La storia dell’oppositore russo Alexey Navalny è seguita con attenzione dai media occidentali, che spesso lo identificano come il vate di una rivoluzione democratica in fasce. E sebbene la figura quasi messianica di Navalny si presti bene a questa interpretazione, la percezione dei cittadini russi è un altro affare; secondo il Levada Center, un istituto di sondaggistica indipendente, da settembre (ossia dopo il suo avvelenamento) il gradimento dei russi per il capo-oppositore è fermo al 19%.

“Navalny spinge le persone fuori dalla loro comfort zone, ma così facendo irrita la sensibilità del russo medio”, ha spiegato Andrei Kolesnikov, Senior Fellow e direttore del centro moscovita del Carnegie Institute, all’evento di mercoledì. “Il regime russo trae beneficio dal conformismo di massa, che di contro danneggia l’operato di Navalny”.

Le proteste pro-Navalny in strada non attirano il supporto del popolo perché le persone sanno che gli conviene conformarsi, ha detto Kolesnikov. La dipendenza dai sussidi statali è più alta adesso rispetto al periodo sovietico, e il cittadino russo è abituato a metterla giù in termini pratici: ricevere standard di vita minimi in cambio di obbedienza. Inoltre, in un’economia dominata dallo stato, le migliori carriere si costruiscono con lealtà, asservimento e conformismo.

Questo, assieme alla propaganda del Cremlino, fa sì che il cittadino russo medio non capisca le motivazioni di Navalny, o di chi va in piazza per protestare, ha spiegato l’esperto. Molti si chiedono chi ci sia dietro l’oppositore (l’Occidente, secondo la propaganda) e molti credono che i manifestanti siano pagati da qualche attore oscuro (o l’Occidente). Narrazione che ben si sposa con quella spinta da governo, che vede la Russia come una “fortezza assediata” da forze esterne desiderose di distruggerla.

Perciò la maggioranza dei russi (56%) non approva le proteste. Secondo l’analista Ekaterina Schulmann il dato si spiega anche considerando la repressione, gli arresti di massa in piazza e soprattutto le nuove tattiche impiegate dalle forze di polizia: salvarsi la faccia arrestando “poco” e rilasciando in fretta, per poi identificare i manifestanti tramite riconoscimento facciale e bussargli alla porta di casa a distanza di giorni. Così il clima che si crea è di perenne tensione. Condizioni decisamente poco rosee per chi auspica una svolta democratica.

Eppure, a causa del peggioramento della qualità della vita (correlato alla traballante economia russa) il cittadino medio è sempre meno contento dello status quo. Specialmente tra le classi di età più giovani, a cui appartengono gran parte dei manifestanti pro-Navalny. Tra i 18 e i 24 anni, secondo il Levada Center, il 38% appoggia le proteste, contro il 16% degli over 55.

La metrica principale da guardare in un’autocrazia personalistica come quella russa, ha spiegato Schulmann, è l’indice di approvazione dello stesso Vladimir Putin. “Meno ti puoi permettere di tenere elezioni libere e giuste, più sei impattato dall’opinione pubblica”. Lo sa bene anche lo zar, al punto che i servizi segreti russi hanno un dipartimento di sondaggistica.

Soprattutto, ha continuato l’esperta, non bisogna farsi abbindolare dal numeretto magico di gradimento ad oggi: 63%, un sogno per un politico in un Paese democratico. Occorre invece guardare alla tendenza storica del dato. Risalito con l’annessione della Crimea nel 2014 dopo i picchi al ribasso della crisi finanziaria, e poi ridisceso, lentamente ma inesorabilmente, dal 2017. La tendenza al ribasso non si inverte dal 2018.

Non è tanto merito di Navalny quanto delle misure concrete prese dal governo russo. Secondo i sondaggi del Levada l’indice di gradimento era all’82% ad aprile 2018, prima che Putin alzasse l’età pensionabile; a luglio era sceso al 67%. Prima dell’inizio della pandemia era al 68%, pochi mesi dopo era al 59%.

Ma l’indice di gradimento preso da solo non rivela il gap generazionale in corso. Il Levada ha rilevato che la distanza tra gli over 55 e le classi di età inferiori sta crescendo. Tra i primi, quasi il 60% vorrebbe vedere Putin riconfermato presidente nel 2024; il numero scende linearmente con il diminuire dell’età per attestarsi a un 31% tra i giovanissimi.

“Putin sta vincendo la battaglia per le menti degli anziani, ma non dei giovani” ha riassunto Kolesnikov. Il che spiega il crescente ricorso alla repressione del regime putiniano, che va avanti dal 2019 ed è stato ovattata dai lockdown, come ha ricordato Schulmann. Ma i segnali sono chiari: non solo più giovani stanno scendendo in piazza, ma le proteste contro il governo adesso si svolgono anche nei paesini della Russia centrale, cosa che non accadeva dagli anni 90.

Come ha ben spiegato il fellow di Carnegie, la speranza che i giovani di oggi porteranno alla fine dell’autocrazia di Putin va trattata con cautela. Più le persone invecchiano e più diventano conservatrici, e il regime russo va a nozze con il tradizionalismo – tanto da opporlo alla “degradazione” in atto tra i giovani, nutrendo via propaganda la convinzione che l’ordine delle cose vada rafforzato per evitare che le prossime generazioni “traditrici” lo pervertano.

“Il passaggio generazionale accadrà se i giovani russi decidono di rompere con i valori di uno stato antiquato”, conclude Kolesnikov. “Questo processo può impiegare molto tempo e includere periodi di regressione, ma potrebbe anche accadere molto più velocemente del previsto. La battaglia per le nuove generazioni e un nuovo pantheon di valori continua di buon passo”.


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