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Trump, Biden e l’America ritrovata. Il racconto di Gentiloni nel libro di De Pizzo

Pubblichiamo l’intervista a Paolo Gentiloni contenuta nel libro di Mario De Pizzo, “L’America per noi. Le relazioni tra Italia e Stati Uniti da Sigonella a oggi” (Luiss University Press). Dal fatidico G7 a Taormina – con l’allora premier nel ruolo di padrone di casa e Trump in quello di debuttante a un vertice internazionale – fino alla svolta multilateralista di Biden

Il 23 giugno 2016 il fronte del Leave – lasciare – vince la battaglia del referendum della Brexit: comincia così la lenta uscita del Regno Unito dall’Unione europea, completata solo a fine dicembre 2020. Pochi mesi dopo, il primo martedì di novembre 2016, Donald Trump batte Hillary Clinton e si avvia a diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Due eventi shock per l’Occidente, dove:

“La redistribuzione della ricchezza innescata dalla globalizzazione ha provocato un domino di diseguaglianze economiche che determina la protesta dei ceti medi, la cui reazione si esprime con aggregazioni e movimenti anti sistema portatori di richieste molto specifiche, evidenziando la decomposizione del panorama politico in fazioni e movimenti protagonisti di singole battaglie accomunate solo dall’opposizione all’establishment di turno”.

È proprio questo lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, con cui si celebra il referendum costituzionale in Italia, il 4 dicembre 2016: il no alla revisione della Carta vince con il 60%. Quel progetto di riforma, come abbiamo visto nel capitolo XII, è alla base del patto del Nazareno e dunque all’inizio del suo iter parlamentare sostenuto anche da Silvio Berlusconi, ma i voti del Cavaliere vengono meno nel febbraio 2015, dopo l’elezione al Colle di Sergio Mattarella, figlia di un’intuizione di Renzi non condivisa dal leader di Forza Italia. Così, a seguito della richiesta di referendum, Renzi personalizza sempre di più come propria la battaglia, perdendola, e la notte del 4 dicembre annuncia le sue dimissioni, con un discorso nella sala dei Galeoni di Palazzo Chigi.

 

Il suo successore è già pronto: è il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, attuale commissario europeo agli Affari Economici, già ministro delle Comunicazioni con Prodi dal 2006 al 2008. Inizialmente la sensazione comune è che il nuovo governo abbia i giorni contati e che il suo unico compito sia quello di accompagnare il Paese ad un voto che si presume immediato; così non è: Gentiloni resterà a Palazzo Chigi addirittura qualche mese oltre le elezioni del 2018, durante la faticosa gestazione dell’esecutivo Conte I.

I rapporti del nuovo primo ministro con i democratici statunitensi sono solidi: prima di diventare ministro degli Esteri, è stato presidente della sezione Italia-Usa dell’unione interparlamentare. È considerato un fervido atlantista e già dagli anni della Farnesina, di concerto con gli Stati Uniti, si spende per un “maggior impegno italiano nel Mediterraneo, per la stabilizzazione della Libia, la gestione dei flussi migratori e la lotta al terrorismo”.

Una sfida e un teatro per i quali ottiene il sostegno dell’amministrazione Obama. Quando si insedia a Palazzo Chigi, tuttavia, dall’altra parte dell’Atlantico imperversa Donald Trump, il quale aveva già chiarito che: “L’americanismo, non la globalizzazione, sarà il nostro credo”; e di conseguenza, che il Nord Africa non rappresenta una priorità della sua politica estera. E così, il 20 aprile del 2017 quando a Washington il premier italiano esorta il presidente Usa a svolgere un “ruolo cruciale in Libia”, quest’ultimo gli risponde che “gli Stati Uniti non hanno alcun ruolo in Libia”.

Incontro Gentiloni pochissime settimane dopo la vittoria di Joe Biden e posso scorgere una nota di evidente sollievo nei suoi occhi.

Presidente, nel giugno del 2017, solo pochi mesi dopo l’esortazione a Trump a svolgere un ruolo cruciale in Libia, lei ha presieduto il G7 a Taormina; mai come in quell’occasione la foto di famiglia dei grandi della terra apparve così sfocata: il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk definì quel confronto tra i più difficili degli ultimi anni. Come si manifestò in quei giorni la leadership di rottura di Donald Trump?

“Taormina non fu il debutto, ma di certo la prima prova da sforzo del presidente Trump sulla scena internazionale. Al netto delle robuste agende preparate per tempo da squadre di lavoro esperte e puntuali, i vertici internazionali sono, innanzitutto, chimica, occasione di scambio e conoscenza interpersonale tra i leader. Sarebbe ipocrita negarlo, ma questa dimensione conta e può influenzare le relazioni tra Paesi, nel quadro, ovviamente, della storia delle alleanze, degli interessi economici, dei valori condivisi. Ricordo che Trump fu molto osservato, direi studiato, dai leader presenti – alcuni veterani come Angela Merkel e Shinzo Abe, altri all’esordio come Macron, May e il sottoscritto –, tutto, però, in una atmosfera positiva e di rispetto che la bellezza di Taormina aiutò a creare. Guardando alle spalle, quei giorni sembrano oggi appartenere davvero al passato, rispetto a quanto siano mutate le condizioni e i contesti, a partire dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Da questa complessità, tuttavia, scorgo i segnali di una speranza non ingenua: penso, per fare un solo esempio, alla crescente consapevolezza europea, anche alla luce della reazione alla pandemia, della necessità non più differibile di giocare un ruolo di leadership sulla scena globale; necessità sulla quale credo il nuovo corso del presidente Biden potrà giocare un ruolo tutt’altro che marginale”.

Nei suoi incontri con Trump, Xi Jinping e Putin che differenze notò nel modo di rapportarsi all’Italia? E che cosa rappresentava allora Roma per i loro rispettivi Paesi?

“Tutti gli interlocutori che lei ha citato hanno, nella mia esperienza personale, sempre manifestato rispetto, attenzione e considerazione per l’Italia. Vede, il fatto di essere da sempre consapevoli del ruolo che giochiamo sullo scenario europeo e internazionale, di una forza capace di dialogo, di intelligenza, nata per unire e non per dividere, ci ha aiutato dal Dopoguerra a oggi a essere protagonisti delle grandi sfide – siamo tra i fondatori della UE – e a non mettere in discussione i nostri fondamentali: europeisti, mediterranei, atlantici, aperti, curiosi. Anche quando la possibilità di deviare da questo corso si è di recente manifestata, l’intelligenza delle cose ci ha riportato al nostro ancoraggio. Lo sa la Cina, lo sa la Russia, lo sa l’America: l’Italia è un interlocutore attento ed affidabile, dalla sicurezza all’economia, dalla lotta al terrorismo al contrasto della pandemia. La nostra storia e la nostra cultura sono conosciute e ammirate da tutti”.

La missione in Niger voluta dal suo governo, così come il Memorandum con la Libia, fu il segno di una strategia italiana regionale per il Mediterraneo. Citando Moro, al forum Med dell’Ispi, lei disse: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”, evocando così la necessità per l’Unione di un rapporto strutturale e di prospettiva con l’Africa. Risiede lì il futuro dell’UE?

“Non c’è alcun dubbio. Non è solo una questione geografica o storica e culturale: riguarda il nostro futuro, le dinamiche globali profonde. Penso, per quello che riguarda l’Italia, al tema libico, ai rapporti con i paesi del Maghreb, alla strategia che mettemmo in campo – con risultati di sistema che furono immediatamente evidenti e che poi, purtroppo, si vennero perdendo – per il contrasto del traffico di esseri umani, di donne, uomini e bambini nel Mediterraneo. L’Unione è ben consapevole di questa dimensione, e da anni sta irrobustendo partnership e iniziative in Africa, anche se altri player internazionali si muovono con determinazione e spregiudicatezza alle quali dobbiamo rispondere con intelligenza e capacità di visione”.

Ursula Von Der Layen ha detto di voler fare dell’Europa una forza geopolitica. Che ruolo può giocare l’Europa tra Washington e Pechino? E come può evitare che Mosca sia attratta dall’orbita cinese?

“Un ruolo chiave. Gli strumenti che abbiamo messo in campo, dopo un primo spaesamento, sul fronte della risposta alla pandemia, disegnano ad esempio una possibile politica economica dell’Unione di domani che non si limita più a un ruolo regolatore e di controllo, ma proattivo e capace di disegnare e rendere sempre più solido il futuro comune. Se ci liberiamo dalla immagine manzoniana del vaso di coccio tra i vasi di ferro, in un cammino di paziente presa di consapevolezza – che non significa carezzare illusioni di scorciatoie populistiche che ci farebbero ripiombare indietro – sono convinto che l’Europa potrà giocare un ruolo di prima grandezza sulla scena globale, una forza gentile, una potenza mite, solida, nella difesa dei valori della libertà, della democrazia e dei diritti che furono alla base del progetto dei fondatori e restano il futuro di quella ambizione”.

Ha definito l’elezione di Joe Biden una svolta anche per l’Europa. Che missione potrà darsi ora l’Occidente? E in che modo l’Europa e l’Italia possono collaborare con Washington dopo anni di oggettiva distanza ed interessi talvolta divergenti?

“L’Europa negli anni della amministrazione Trump si è trovata a fronteggiare due crisi profonde, come quella causata dalla Brexit e, ovviamente, la pandemia. E lo ha fatto con una consapevolezza e una determinazione che non erano affatto scontate e che hanno messo l’Unione davanti a un bivio: o crescere, insieme, o rischiare l’irrilevanza o peggio. Le risposte messe in campo dalle istituzioni europee sono state non solo senza precedenti, ma all’altezza della sfida. Una Europa più consapevole di sé, più matura, temprata, potrà essere un partner ancora più solido nei confronti degli Stati Uniti guidati da un convinto multilateralista come Joe Biden. Credo che Europa e Italia potranno far fruttare questo radicale cambio di direzione in America, non semplicemente come un ritorno a un più rassicurante passato, ma come il ripristino di una relazione basata sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione leale”.



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