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Non solo Br. Cosa resta della dottrina Mitterand

Di Leonardo Palma

Nacque come un’indicazione politica alle procure francesi, negli anni è assurta al rango di teoria politica. La mazzata di Macron alla dottrina Mitterand con la consegna di sette ex brigatisti all’Italia volta pagina. Ma ha alle spalle ragioni tutt’altro che simboliche. L’analisi di Leonardo Palma

Il presidente francese Emmanuel Macron ha autorizzato la scorsa settimana il fermo, premessa ad una probabile estradizione, di ex terroristi italiani da anni latitanti oltralpe. L’Eliseo avrebbe così intaccato la dottrina Mitterrand che, dal 1985, ha permesso a centinaia di militanti che parteciparono alla lotta armata di trovare rifugio in Francia. L’Italia ha accolto con favore la decisione del presidente che permetterà di sanare, almeno in parte, un antico motivo di contrasto tra i due paesi.

La dottrina che porta il nome del presidente socialista, François Mitterrand, non può essere spiegata unicamente adducendo a motivo della stessa le simpatie politiche di quest’ultimo, così come le ragioni di Macron vanno ricercate in un contesto più ampio solo in parte riferibile alla soluzione delle richieste pendenti di estradizione da parte italiana.

La dottrina, che non fu mai tale ma si configurò tutt’al più come una indicazione di condotta da parte dell’Eliseo agli apparati giudiziari francesi, fu un tentativo, forse maldestro e contraddittorio ma favorito da una certa cultura politica ed intellettuale dell’epoca, di sterilizzare un problema politico e di sicurezza più ampio.

Nei primi anni Ottanta la Francia era in guerra con il terrorismo mediorientale. Scontava la presenza di un attivismo militante dell’estrema sinistra potenzialmente capace di sfociare nuovamente nella lotta armata, nelle barricate e di fondersi, come nei progetti del gruppo terrorista rosso Ad (Action Directe), con gruppi stranieri.

Decine, se non centinaia, di transfughi italiani da gruppi extraparlamentari e organizzazioni terroristiche avrebbero potuto rappresentare un ulteriore focolaio di tensione. La dottrina fu dunque un patto tacito, una sorta di amnistia condizionata simile a quanto fatto con i militanti algerini e dell’Oas (Organisation de l’Armée Secrète) o con i baschi, i corsi ed i palestinesi: regolarizzazione in cambio di una tregua o, se possibile, di pace. Un esperimento di convivenza tra Stato e lotta armata, nelle sue varie declinazioni, attuato del resto anche dalla Germania federale e dall’Italia (nel caso, per esempio, dei palestinesi) in anni che, come ebbe a dire il presidente Francesco Cossiga, furono molto simili a “una guerra civile”.

Parimenti, la decisione presa negli scorsi giorni da Macron richiede un duplice piano di lettura. Da un lato l’Eliseo ha deciso per un gesto altamente simbolico nei confronti dell’Italia che si inserisce nel percorso di riavvicinamento franco-italiano. Dall’altro risponde alla necessità interna di segnalare l’inflessibilità del governo rispetto al problema del terrorismo e della presenza di filiere salafite al di fuori del controllo statale.

Motivazioni che, oltretutto, non prescindono né da un calcolo elettorale in vista delle prossime presidenziali, né dalla tensione sociale che la Francia vive da un triennio a questa parte, e di cui la lettera aperta indirizzata al capo dello Stato, firmata da diversi ex generali dell’Armée e pubblicata in occasione dell’anniversario del tentato putsch di Algeri dell’aprile 1961, rappresenta un evidente campanello di allarme. Sebbene non via sia un pericolo reale di golpe a Parigi, nondimeno la questione del terrorismo e dell’islamismo, in un paese che nel 2050 conterà un’assai più vasta presenza musulmana, è per Macron ineludibile.

Dal punto di vista dei rapporti con l’Italia, un gesto così simbolico è invece, come già accennato, parte del rapprochement in corso tra i due Paesi. Entrambi hanno interesse ad una più compiuta integrazione tra le due economie, ad una cooperazione rafforzata in Africa subsahariana (dove l’Italia ha da poco inviato i suoi soldati a sostegno delle operazioni contro-terroristiche francesi in Mali), al contenimento della Turchia (su cui le dichiarazioni di  Draghi hanno tracciato un perimetro di azione all’insegna del pragmatismo e dei principi), alla stabilizzazione della Libia, alla ridefinizione dei rapporti con Russia e Cina popolare, al controllo ed allo sviluppo di filiere ad alta tecnologia. Soprattutto, Roma e Parigi si intendono nel quadro degli equilibri europei e rispetto alla necessità di sfruttare la transizione di potere in corso in Germania per immaginare un rapporto diverso con Berlino nell’Europa del dopo-pandemia.

L’insieme di questi obiettivi deve passare, secondo Macron, per un nuovo corso nei rapporti franco-italiani ma anche per il rafforzamento suo proprio, in vista delle elezioni, e nella riaffermazione dello Stato francese lì dove si ha la percezione che esso sia indebolito. Un colpo di piccone alla dottrina del predecessore Mitterrand potrebbe allora essere letto anche alla luce di queste coordinate.

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