Paradossalmente, proprio l’ecologismo storce il naso sulla parte ambientale della stesura del Pnrr. Ma è davvero da bocciare? Analizzando in controluce le 318 pagine e gli obiettivi, le priorità trasversali e le riforme annunciate, vi sono dieci buoni motivi che fanno pendere la bilancia sul positivo
“È la rivoluzione verde, bellezza!, direbbe Humprey Bogart. Vero. È quanto di più inaspettato ci potesse capitare. E per finanziarla sul piatto ci sono 248 miliardi: 191 dal Next Generation Ue, 31 dal fondo complementare e altri 26 per opere specifiche. Obiettivi: abbattere 428 milioni di tonnellate annue di CO2 puntando forte sulla sostenibilità ambientale per gestire contemporaneamente le due crisi epocali: la crisi climatica che dai tempi in cui non esistevano i social ci vede hot spot di effetti traumatici abbastanza sottovalutati, e la devastazione pandemica economico-sociale che impoverisce e impaurisce. Questo doppio disastro non si affronta con una banale graduale ripresina ad andamento lento, ma con qualcosa di simile all’epopea della ricostruzione rooseveltiana o all’European Recovery Program, il piano Marshall del dopoguerra, ma con l’accelerazione da Willi Coyote perché il tempo è tutto e per spendere la colossale cifra a disposizione non abbiamo 60 anni ma appena 6.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, fresco di consegna da Mario Draghi a Ursula Van Der Leyen, per la prima volta mette l’Italia sulla strada della transizione ecologica ed energetica, di reti connesse, integrate e intelligenti che trasporteranno energie pulite da record, intorno alle quali ruotano tutte le opere delle altre 5 missioni (digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione sociale; salute).
L’insperata “rivoluzione verde” – che nell’anno di Draghi premier vede l’Italia presiedere il G20 Ambiente e la Cop26 che sarà la più importante e segnerà finalmente l’avvio dell’Accordo di Parigi dopo il rientro degli Usa per provare a raffreddare la temperature media a 1,5 gradi e sotto i 2 a fine secolo -, porta a casa il budget più corposo: 59,33 miliardi dal Pnrr più 9,12 dal fondo complementare per un totale di 68,45 miliardi. Una enormità per il Belpaese dove finora l’ambiente è stato terreno di deresponsabilizzazioni diffuse e conflitti. Ma oggi anche i “lupi” di Wall Street guardano l’ambiente come la vetrina luccicante di occasioni di business, crescita, benessere, lavoro. E Joe Biden al recente vertice dei leader mondiali sul clima ha annunciato: “Combattendo i cambiamenti climatici vedo l’occasione di creare milioni di posti di lavoro“. I suoi consiglieri climatici sanno bene che ridurre le emissioni entro il 2030 del 55% e raggiungere l’economia a “zero emissioni” entro il 2050, lo stesso nostro target europeo, vuol dire accelerare investimenti innovativi che producono tanta occupazione e anche tanto consenso.
È qui che gli ecologisti sfidano però il governo contestando alcune scelte nei trasferimenti finanziari. Per Wwf, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club, Transport & Environment e il neonato gruppo parlamentare Facciamo Eco-Federazione dei Verdi, sotto alcuni titoli ambientalmente corretti si vede poco o nulla di radicale. Contestano al Vaste Programme la mancanza di una visione chiara, e quella che c’è la considerano “opaca” al punto “che rende difficile il percorso verso l’azzeramento delle emissioni di carbonio”. Vedono il rischio di non raggiungere i target di protezione di atmosfera, territori, acque, nei settori-pilastro della lotta alle emissioni killer. E temono il mancato aggancio nei tempi previsti all’economia all’idrogeno verde, alle e-mobility revolution, edilizia a impatto zero, economia circolare, adattamento climatico, nuovo ciclo idrico, bonifiche dei siti inquinati, innovazione produttiva, rigenerazione urbana e le smart city, agricoltura biologica. Spiega Legambiente, che ha presentato un suo dettagliato contro-Pnrr verde, “manca la messa a punto di obiettivi, strumenti e interventi nel dettaglio, coerenti e integrati tra loro per tradurla in realtà”.
Il Pnrr lascia “lo zero virgola” rispetto al budget colossale alla strategia per i “vettori energetici del futuro”, quelli di lungo periodo come l’idrogeno per il quale, spiegano, “è scomparsa l’etichettatura verde”, e questo lascia margini di ambiguità. Non è chiaro se sarà ricavato con fonti rinnovabili oppure resterà terreno di scontro visto il loro netto No all’idrogeno da fonti fossili e all’impianto di cattura e stoccaggio CO2 a Ravenna. Ma il Ministro della Transizione Ecologica, il fisico Roberto Cingolani, sul Corriere della Sera assicura che di idrogeno verde si tratta e non da metano: “Vogliamo una società in cui i mezzi di trasporto o le acciaierie usino idrogeno verde, unico a zero emissioni poiché utilizza come materia prima l’acqua e l’energia per produrlo è quella pulita rinnovabile installando entro il 2030 settanta Gigawatt di potenza per la produzione di rinnovabili”.
Cingolani calcola 6 GW all’anno, un botto rispetto allo 0,8 di oggi, ma gli analisti ecologisti nel piano leggono uno sviluppo di rinnovabili “di 4 GW l’anno” e la troppo bassa intensità di investimenti previsti per l’efficienza energetica non spalmata su tutti i settori – dall’industria all’edilizia – ma ferma all’agro-voltaico e alle ristrutturazioni dell’eco-bonus 110%; la “troppo marginale” elettrificazione dei trasporti; scarse novità oltre le “comunità energetiche” e dell’agri-voltaico con scarsi fondi per le energie pulite compreso l’eolico off-shore. Il piano, lamentano, punta alla copertura fotovoltaica dei 4,3 kmq di tetti di aziende agricole, ma dimentica i 9000 kmq di capannoni industriali e per il sistema produttivo sono allocati 31 miliardi complessivi, ma senza citare energia e efficienza, così come per i 3,9 miliardi per l’edilizia scolastica senza l’obiettivo prioritario dell’efficienza energetica, E indicano anche la pochezza di investimenti (1 miliardo) su ricerca e produzione di batterie e sviluppo degli accumuli elettrochimici, l’assenza dell’idroelettrico.
Ma è soprattutto il settore trasporti e mobilità che attira critiche radicali per l’obiettivo dell’elettrico lasciato “con meno dell’1% del budget, in controtendenza con il 25% del piano Merkel o del 10% del piano Sànchez”. L’unica nota positiva sono le smart grid (3,6 miliardi) per rafforzare la rete elettrica urbana. Appena 0,74 miliardi sono previsti per installare 21.355 punti di ricarica, una goccia nel mare “dei 3,4 milioni complessivi di ricariche necessarie per raggiungere l’obiettivo previsto dal Piano nazionale integrato energia e clima di 6 milioni di auto elettriche circolanti al 2030, e il Pnrr salta le aree urbane responsabili delle maggiori emissioni di CO2, e investe 8,58 miliardi del tutto insufficienti a colmare i clamorosi deficit delle flotte di bus e treni regionali e della ciclabilità urbana”. Nel piano ci sono 85 nuovi km di reti tramviarie, 120 di filovie, 11 di metro, 1.820 di ciclabili di cui 560 urbane, “sufficienti per la sola area metropolitana di Roma”.
Come l’acquisto di appena 53 nuovi treni regionali su 456 treni regionali circolanti di cui 256 ancora a trazione diesel, e di 3.360 nuovi bus con la troppo vaga descrizione di “bus a basse emissioni” su una flotta di 42.800 mezzi circolanti con età media superiore alle omologhe dell’UE. Nel contropiano ecologista, per attuare i Piani Urbani della Mobilità Sostenibile già approvati e in attesa di fondi, servirebbero invece almeno 150 km di reti tramviarie, 5.000 km di ciclabili urbane e 10.000 km extra-urbane, e 15.000 nuovi autobus elettrici. E i fondi si concentrano piuttosto sull’alta velocità con 13 miliardi e con 24,77 miliardi a nuove ferrovie, mentre 9,53 miliardi (7,8 dal Pnrr e 1,73 dal fondo complementare) sono destinati a nodi metropolitani e ferrovie regionali.
Se il No è netto al nucleare anche cosiddetto “pulito” come al Ponte sullo Stretto più sismico del mondo, sui termovalorizzatori “scoraggiati” nel Pnrr non vi sono problemi, e altri nodi sono l’assenza di investimenti per l’incremento di superficie agricola biologica, e per le bonifiche dei siti inquinati, e troppo poco per le reti idriche, fognarie e i depuratori rispetto alle enormi falle italiane già condannata dalla Corte di Giustizia europea per un terzo di cittadini ancora non allacciati a depurazione, perdite idriche intorno al 40%, reti-colabrodo che le tariffe più basse d’Europa non riusciranno mai a tappare. E infine, nella sezione riforme spicca l’assenza della legge sul consumo di suolo.
Paradossalmente proprio l’ecologismo storce il naso sulla parte ambientale della stesura del Pnrr. Ma è davvero da bocciare? Analizzando in controluce le 318 pagine e gli obiettivi, le priorità trasversali e le riforme annunciate, vi sono dieci buoni motivi che fanno pendere la bilancia sul positivo.
Primo. Non c’è solo il Pnrr. C’è un altro budget, quasi con le stesse cifre, che può affiancarlo e recuperare le carenze di investimenti individuate dalle associazioni green con i fondi di bilancio ordinari, il Fondo di sviluppo e coesione, i fondi strutturali europei. E soprattutto liberando prima possibile la vergogna di avere risorse bloccate per un valore di mezzo Pnrr nelle casse pubbliche di Stato e Regioni. Sono qualcosa come 120 miliardi appostati su opere e interventi negli ultimi due decenni di manovre finanziarie, fermi per mancanza di progetti, autorizzazioni, boicottaggi, comitatismo Nimby, contrasti locali, governance deboli, scarsa determinazione politica, e anche menefreghismo, e su tutto questo la perdurante assenza dello Stato centrale negli interventi diretti problem solving sui soggetti esecutivi e le stazioni appaltanti. Dice tutto l’incredibile numero di 694 progetti incagliati da anni alla commissione VIA dell’ex Ministero dell’Ambiente.
Cartina di tornasole del successo del Pnrr sarà il Sud dove il Pnrr investe più fondi della mitica Cassa del Mezzogiorno che dal 1951 al 1961 spese all’incirca 150 miliardi di euro, mentre Draghi ne mette 82 in 6 anni, più altri 8,4 dai fondi coesione React-Eu, 54 dai nuovi fondi strutturali 2021-2027, 58 dal Fondo per lo sviluppo. Un flusso di miliardi epocale.
Secondo. La visione del Pnrr è chiara ed è la scelta della de-carbonizzazione: meno 55% di emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e, come spiega Cingolani, lo stop al carbone nemico numero uno, il boom di energie rinnovabili che in 10 anni copriranno il 72% del fabbisogno elettrico installando 70 GW (dai 54 di oggi) prevalentemente da centrali eoliche e fotovoltaiche e incentivando eolico off shore e agro-fotovoltaico, sì al gas naturale come elemento di transizione verso la totale autonomia dai combustibili fossili, punto interrogativo su cattura e stoccaggio della C02.
L’orizzonte dell’economia a idrogeno verde vede ricerca e produzione finanziata con 3,19 miliardi: 2 miliardi per la riconversione a forni elettrici di acciaierie e altre industrie, 500 milioni per la produzione in aree industriali, 530 per sperimentazione nel trasporto stradale e ferroviario, 450 per sviluppo di tecnologie e 160 per la ricerca. I circa 5 miliardi all’agri-fotovoltaico significheranno 6-7 GW di rinnovabili e sostituzioni di mezzi diesel. Sono circa 15 i miliardi per la tutela dei territori e le infrastrutture idriche, altri 15 per l’efficienza energetica dell’edilizia e 24 alla transizione energetica e alla mobilità.
Terzo. L’obiettivo di de-carbonizzazione al 2030 avrà bisogno di step successivi, monitoraggi di policy . Considerata però la tempistica dei cantieri che vanno chiusi in 6 anni, salvo restituire tutto, non si può escludere una rimodulazione del piano con una nuova trattativa con l’Ue e una scrematura di progetti in ritardo e non finanziabili e la loro sostituzione con progetti pronti alla fase di cantiere. Questo potrebbe rafforzare ulteriormente in progress la strategia climatica.
Quarto. Se è vero, come è sempre più vero, che la green economy è il settore industriale che in Europa aprirà le porte del mercato del lavoro ad almeno 20 milioni di persone (14 nella manutenzione del territorio, 2 nell’efficienza energetica, il resto nelle fonti rinnovabili e nell’economia circolare), una bella quota sarà nostra. Sono orizzonti talmente invitanti che meritano la forte scossa di efficienza. E fortunatamente oltre alla reputazione di Mario Draghi c’è anche il controllo della Commissione Ue che sarà severo e gestito da uno dei fondatori dell’ecologismo italiano, il Commissario agli Affari Economici Ue Paolo Gentiloni, una forte garanzia essendo uno dei padri del Green Deal europeo, e questo farà bene al piano.
Quinto. Il Pnrr è un piano straordinario da inserire nella pianificazione ordinaria, collegato alle linee della strategia climatica del nuovo “Piano nazionale per l’energia e il clima”, alla riforma della fiscalità con forte riduzione o addirittura l’eliminazione chiesta dagli ecologisti di sussidi climalteranti alle fonti fossili, alla fiscalità verde che dovrà essere inserita nella legge delega di luglio, alla revisione del Piano nazionale della logistica e trasporti datato 2001, all’adozione del “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” e alla “Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile”. Sono anche strumenti operativi per le opere del Next Generation Ue e indicheranno obiettivi di sostenibilità e compatibilità ambientale degli investimenti.
Sesto. Un po’ più di ottimismo. Basta sfogliare i report di Symbola e Unioncamere per rendersi conto che noi italiani possiamo essere una sorpresa planetaria. Siamo oggi terzi produttori al mondo di biomasse, leader nella geotermia, primi per sfruttamento dell’energia solare termica e fotovoltaica e per le rinnovabili che coprono stabilmente il 42% della produzione elettrica nazionale. C’è una Italia che è già in transizione ecologica con aziende di Stato, multiutility e società che operano con risultati eccellenti.
Sono oltre 432mila le imprese italiane dell’industria e dei servizi che hanno investito in prodotti e tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiando energia e contenendo le emissioni di CO2, con un numero di green jobs oltre la soglia dei 3 milioni: il 13,4% del totale dell’occupazione. Abbiamo già oggi un dispiegamento di tecnologie, prodotti e soluzioni del vivere, dell’abitare, del muoversi, lavorare, gestire risorse fondamentali come l’acqua e il suo trasporto e il suo consumo, controlli di rischi naturali.
In questo periodo è in preparazione la prima Expo-vetrina della transizione ecologica e digitale (Firenze, Fortezza da Basso, 13-16 ottobre prossimo, ingresso libero) ed è sorprendente il dominio italiano con l’eccellenza nella ricerca scientifica e nelle tech applications di centri come Cnr, Ingv, Ispra, Enea, Agenzia Spaziale, Centro Euro Mediterraneo per i cambiamenti climatici, e di aziende come Leonardo, Eni, Terna, Enel, le aziende di Utilitalia e altre, con brevetti, capacità di acquisizione dati ad alta risoluzione da satellite e sensoristica, con potenzialità impressionanti nelle smart city e smart rood, nell’attraversamento delle frontiere delle innovazioni con reti 5G che saranno driver strategico. È l’Italia che non ti aspetti, l’altra faccia dello Stato e della pubblica amministrazione che non si piange addosso ma realizza cose meravigliose per la transizione green, e magari le comunica poco.
Settimo. Bisogna essere ottimisti anche perché per la prima volta nella storia dei nostri lavori pubblici abbiamo la data di consegna delle opere, una scadenza, e questo cambia tutto. Fase di progetto, gara e lavori e collaudo devono essere allineate e velocizzate. Una nuova strumentazione giuridica e amministrativa è dunque essenziale, con fasi autorizzative (Via, Vas, Sovrintendenze, Consiglio superiore dei lavori pubblici) con procedure rigorose ma molto più veloci e con tempi certi. Tutto la gigantesca operazione Recovery richiede semplificazioni e accelerazioni e poi strutture tecniche di supporto e monitoraggi seri. O ci saranno forti riduzioni di “tempi morti” sprecati in procedure solo formali, e il veloce recupero di capacità tecnica e di gestione di cantieri nella pubblica amministrazione, oppure fra sei anni faremo i conti con tante occasioni mancate. E questo epilogo proprio non possiamo permettercelo.
Ottavo. Serve un format nuovo, un metodo di lavoro condiviso con connessioni e ponti tra mondi e interessi diversi e finora distanti o addirittura contrapposti. Una “governance partecipata” come chiedono le associazioni con “una Struttura di missione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri sul modello di quanto già fatto, con risultati incoraggianti, sul rischio idrogeologico e sull’edilizia scolastica”. Serve, anche per aumentare la consapevolezza dell’utilità di un’opera e ridurre i conflitti territoriali e il comitatismo Nimby e dei suoi fratelli del No a quasi tutto, il “dibattito pubblico” per la massima condivisione e la partecipazione di cittadini e istituzioni locali. È già previsto dal Codice degli appalti e in tempi certi risponde al bisogno crescente da parte delle comunità locali di essere protagonisti del loro destino.
Nono. Non siamo in Germania e nemmeno in Francia o in Olanda dove girano più bici che auto, ma nella cuccia italiana in ritardo su (quasi) tutti i parametri ambientali europei. Chi dall’Earth summit di Rio de Janeiro del 1992 si batte per il clima e l’ambiente, solo un anno fa non avrebbe scommesso un cent su un mega-investimento del genere. Invece è tutto vero, e pur con tutte le perplessità, le associazioni ecologisti possono indirizzare il rilancio ambientale e socio-economico nel decennio cruciale per raffreddare la febbre del Pianeta. Certo, bisogna essere in due, e il governo Draghi avrebbe tutto l’interesse a trasformare valutazioni negative in opportunità.
Dieci. Visto che solo in Italia l’ambiente finora è stato il grande assente dal dibattito politico e dai programmi elettorali e anche dai talk show, e pochi prendevano sul serio gli effetti dei cambiamenti climatici, il Pnrr è l’occasione per aumentare la conoscenza dei fenomeni naturali, la coscienza dei rischi, l’amore e la passione nella tutela della penisola dei tesori ambientali.