Se il nostro Paese ospiterà il World Water Forum del 2024 torneremo a occuparci di acqua, tema da serie A della politica. Per non continuare a scaricare i problemi di oggi sui nostri figli e nipoti, perché troppe crisi idriche sono crisi di infrastrutture idriche. Erasmo D’Angelis racconta la candidatura, i problemi e le prospettive
La nostra acqua Cenerentola farà, si spera, il suo debutto nel 2024 al decimo World Water Forum, il meeting-expo mondiale delle grandi organizzazioni globali come Unesco e Fao, che ogni tre anni seleziona un paese e una città per un largo confronto sulla pianificazione di programmi a lungo termine per la sua tutela e la gestione sostenibile. L’Italia è candidata ad ospitarlo con le potenti suggestioni e la concretezza delle opere di Francesco d’Assisi e Leonardo da Vinci, ed è un’occasione che vale una riflessione sui perché “sorella acqua umile et casta” in Italia è ultima nella considerazione generale, con un filo d’invidia per chi al contrario di noi la protegge e investe sulla fonte del nostro benessere e del nostro futuro.
La verità nuda, cruda e amara è che la nostra acqua bene comune fa il pieno di luoghi comuni, di retorica e demagogia, ed è costretta ai margini degli investimenti nazionali per i nostri istinti autolesionisti. La diamo per scontata e ci accorgiamo che c’è solo quando non c’è, non è di moda, non ha grandi sostegni e nemmeno nel gigantesco Recovery fund, avendo però un disperato bisogno di cure, attenzioni, decisioni, e di una compensazione che colmi i ritardi che si sono trasformati in danni all’ambiente e alle acque e anche in pesanti sanzioni europee per troppe tragedie idriche soprattutto nel nostro Sud.
Per questo la scelta di candidare l’Italia ha il significato di dare un colpo di accelerazione, da subito, per l’ingresso della Cenerentola degli investimenti nei programmi nazionali per la sua protezione e per le infrastrutture che le sono funzionali e dalle quali noi utilizzatori siamo strettamente dipendenti. Con questi obiettivi nel 2024 potremmo ospitare a testa alta il World Water Forum che ha target da evento mondiale. Brasilia 2018 ha visto circa 10.000 i partecipanti al panel congressuale con 350 sessioni ed eventi, oltre 100.000 visitatori, 172 i paesi rappresentati con circa 1000 organizzazioni e oltre 2000 giornalisti accreditati, come Marrakesh, l’Aja, Kyoto, Mexico City, Istanbul, Marsiglia, Daegu Gyeongbuk, e nel 2022 il posticipo causa pandemia sarà a Dakar.
L’alternanza continentale dell’evento favorisce un paese europeo, e sta emergendo la nostra candidatura presentata nel settembre 2020 dal comitato promotore con il presidente Endro Martini, i sindaci di Firenze Dario Nardella e di Assisi Stefania Proietti, frate Antonello Fanelli del Sacro Convento di San Francesco di Assisi, sostenuta dal Governo attraverso il Ministero degli Esteri, Dipartimento della Protezione Civile, ISPRA e Autorità di bacino dell’Italia centrale, e si aggiungono Roma, altre istituzioni, associazioni, enti, università, aziende.
Ci presentiamo con l’obiettivo della firma della “Carta del Rinascimento dell’acqua”, con target e impegni su scala mondo a partire dall’arginare i 263 conflitti in corso per il controllo delle riserve idriche nei punti più caldi e più poveri, con 37 più rischiose “guerre dell’acqua” in aree sottoposte a stress climatici e idrici dove vive un buon 40% della popolazione mondiale, e si prevedono condizioni ancora più dure di scarsità di approvvigionamenti e inquinamento. I dati Onu sono terribili: circa 1 miliardo di persone senza accesso all’acqua potabile, 2.4 miliardi privi di strutture igienico-sanitarie adeguate, un bambino su cinque muore per sete o malattie legate all’acqua e sono 4.500 morti al giorno, più delle guerre.
Nonostante i nostri gap, l’Italia ha almeno cinque buoni motivi “globali” per ospitare a testa alta l’intero mondo. Il primo è nella grande bellezza della nostra penisola dove ogni paesaggio e immagine da cartolina racconta un paese “costruito sulle acque”, terre strappate a paludi e maree, civiltà e città universali fondate sui fiumi in un corpo a corpo con le loro piene, culture fluviali dalle radici millenarie, e corsi d’acqua come Po, Tevere o Arno che scorrono nelle vene del mondo intero.
Il secondo motivo è la nostra grande storia idraulica che da sempre fa scuola nel mondo, a partire dalla globalizzazione degli acquedotti romani con 149 impianti sul suolo italico e altri 200 nei territori conquistati.
Plinio il Vecchio li descrive ammirato: “Chi vorrà considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le terme, le piscine, le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza da cui l’acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso”. Opere talmente durevoli che alcune, come a Bologna, portano acqua tuttora, e che sono valse per Roma il titolo di Regina Aquarum per i suoi 11 acquedotti che garantivano la strabiliante portata di circa 1000 litri per abitante, lo stesso flusso d’acqua di oggi ma per il quadruplo dei romani di duemila anni fa.
Terzo motivo è l’essere non solo il Belpaese d’o Sole ma anche dell’acqua, come nessun altro paese d’Europa e forse del mondo. Abbiamo noi il record di piogge e ogni anno siamo beneficiati, in media, da 302 miliardi di metri cubi di acqua (dato Istat, Ispra, Cnr). Una enormità che vale una dotazione eccezionale di 5.000 metri cubi ad abitante, impressionante se paragonata ai consumi medi annui di una famiglia media di tre persone pari a nemmeno 150 metri cubi per fare tutto.
Per questo, siamo anche custodi del più ricco e complesso sistema idrologico del continente europeo, con 7.494 corsi d’acqua di varia lunghezza e dimensione con 1.242 fiumi dei quali 135 sfociano in mare coprendo con i loro bacini idrografici l’83% della superficie nazionale che è quasi tutta “bagnata” dalle acque, 347 laghi e circa 20.000 piccoli e piccolissimi specchi d’acqua dall’elevatissimo valore naturalistico e paesaggistico, e 1.053 falde sotterranee che sono i nostri serbatoi di acqua purissima. Di tutta questa risorsa preleviamo appena l’11,3% all’anno, meno rispetto al 13,2% del 1971 per carenze di invasi di immagazzinamento, così distribuiti: 51% agricoltura, 21% industria, 20% civile, 5% energia, 3% zootecnia. Ma negli utilizzi l’indole allo spreco e le nostre reti colabrodo fanno perdere per strada 7,6 miliardi di metri cubi di acqua.
Il quarto motivo è la crisi climatica che richiede immediate difese delle nostre acque e immediate difese dalle acque. Subiamo piogge sempre più frequenti ma sempre più a carattere esplosivo e in tempi e spazi sempre più ristretti, e bisogna contenere eventi di frana e alluvioni che impattano su località di 7.275 comuni, il 91% del totale, ripartendo con le 10.300 opere e interventi del piano nazionale di italiasicura, finanziate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza con 8.9 miliardi.
Bisogna poi saper gestire l’altra faccia della medaglia con sempre più lunghi periodi di siccità, l’aumento zone in inaridimento e desertificazione che vedono ridotta o cancellata produttività agricola come in aree sud e isole, la salinizzazione delle falde costiere con l’effetto “cuneo salino” con penetrazione di acqua marina nelle falde dolci con impatti già in corso sulle nostre coste dal Sud alla Maremma all’alto Adriatico, la variazione prevista del livello dei mari per lo scioglimento dei ghiacciai che avrà conseguenze sui sistemi urbani portuali e socio economici e su aree agricole costiere.
Ma l’Italia ha oggi un simbolo potente di reazione al rischio che parla al mondo. Ricordiamo tutti lo choc di una Venezia travolta dall’acqua alta il 12 novembre 2019 a 187 centimetri, mai così alta dal ’66. Oggi, il sistema di paratie mobili del MOSE – dopo quattro decenni di lavori e ignobili scandali, più della traversata nel deserto di Mosè, sta finalmente salvando la città dalle maree, a dimostrazione che le soluzioni ci sono, possono essere affiancate da altri interventi come il progetto Insulae, ma noi italiani sappiamo agire, abbiamo tecnologie, professionalità e capacità tecniche notevoli.
Il quinto motivo è prendere al volo l’occasione della candidatura per l’uscita prima possibile dal decennio della rimozione, iniziato con il botto del più partecipato referendum del 12 e 13 giugno 2011, con il 57% di italiani al voto e 23 milioni di Sì al 95,35% per l’acqua pubblica che però era ed è già pubblica. Un voto emozionale ma talmente equivoco che un minuto dopo la loro stravittoria i referendari furono lasciati soli da tutti i partiti, i sindacati, le personalità e le associazioni in fuga dalle scelte conseguenti che erano del tutto impercorribili.
Ma tant’è, la sua scia di disinformazione, di facili slogan, di notizie raccolte qua e là via web e sparate ad effetto con l’ossessione di avere sempre di fronte chissà quale nemico del bene comune, è rimasta, e il decennio di incertezze si è trasformato in un boomerang sugli utenti e sull’ambiente. Il voto, che fece leva su un principio giusto e indiscutibile (l’acqua è un bene comune) e per tanti doveva “mandare a casa Berlusconi” mandò a casa tanti lavoratori ritardando la modernizzazione delle nostre infrastrutture e il disinquinamento di fiumi e laghi e acque marine avvelenati da scarichi fognari in libertà.
Ancora oggi ciò che 3 italiani su 10 scaricano nel lavandino o nel water finisce nel nostro ambiente e nelle acque neanche fossimo un paese in via di sviluppo. Ma come “sorella acqua”, anche “fratello fogna” non fa notizia, non emoziona e non mobilita come fortunatamente riesce a fare ad esempio la benemerita battaglia contro le microplastiche.
Dieci anni dopo, resta dunque la rimozione nazionale del problema idrico, e non è solo una epocale questione ambientale ma di opere infrastrutturali necessarie perché se la natura l’acqua ce l’ha donata in abbondanza, a depuratori, acquedotti e condotte ci dobbiamo pensare noi, e sono costose. Resta il condizionamento di due tipologie di approccio che stanno garantendo uno status quo indegno del nostro Paese.
Da un lato, lo schema demagogico delle curve sud, ognuna con la sua bandierina ideologica da sventolare, ma con sempre meno vento: privatizzazione o pubblicizzazione. Dall’altro lato, la confusione tra acqua e tubi, tra la sua gestione da sempre a controllo pubblico (tariffe, regolazione, controlli e aziende) con “privati approfittatori del bene comune”, tra gli investimenti e i necessari utili per non portare libri in tribunale come tante municipalizzate e quasi tutti distribuiti ai Comuni come “bieco profitto”.
Continuiamo ad ignorare cosa muove le acque verso i rubinetti e gli altri usi: non bacchette magiche, ma mani e braccia, gestione di migliaia di impianti e centinaia di migliaia di chilometri di reti, con tecniche e tecnologie e una immensa materialità che ha un costo che per legge deve quadrare con le tariffe più basse di tutti gli altri paesi europei, a 160 euro in media l’anno per una famiglia media con consumi medi.
Cosicché, proprio il Paese che tremila anni fa ha inventato gli acquedotti e le cloache, è in coda all’Europa per problemi di acquedotti per un 15% di italiani (quasi tutti al Sud), per un sistema concessorio in capo alle Regioni che fa acqua, incertezze e nessun controllo sui consumi in particolare nel settore industriale, per perdite nel civile in media nazionale del 38,2% sui 385 litri per abitante immessi giornalmente nelle reti comunali di distribuzione per un consumo pro capite giornaliero più elevato d’Europa da 245 litri a testa.
Sono condizioni e sprechi che gridano vendetta se pensiamo a zone del Sud dove si immettono 2 litri di acqua per averne 1, e sono perdite in aumento costante per il semplice motivo che sui 550.000 chilometri di tubazioni idriche italiane, almeno 200.000 sarebbero da rottamare, sostituire, riparare o rigenerare, e servirebbe posare almeno 50.000 chilometri di nuove reti (30.000 per l’acqua e 20.000 per le fognature). Il tasso nazionale di rinnovo è però bassissimo: 3,8 metri di condotte per ogni chilometro, calcola Utilitalia, quasi tutto al centro-nord e con questo ritmo occorrerebbero 250 anni per raggiungere perdite accettabili in media europea, diciamo sotto il 10%.
Anche il Pnrr elenca i nostri guai e si legge: “Gli investimenti nelle infrastrutture idriche sono stati insufficienti per anni e causano oggi rischi elevati e persistenti di scarsità e siccità. La frammentazione dei diversi attori e livelli istituzionali rappresenta un ostacolo agli investimenti. 895 agglomerati hanno violato le direttive dell’UE, con multe attualmente pagate da 68 di loro”. Nella panoramica sui sistemi di fognatura, collettamento e depurazione evidenzia il ritardo italiano con livelli vergognosi di scarichi fognari e industriali direttamente nei corpi idrici.
A 16 anni dal termine ultimo – il 2005 – per la messa a norma dei sistemi fognari e depurativi a cui ci obbliga la Direttiva Ue 91/271, restano ancora clamorose le nostre omissioni. Sono 4 i procedimenti di infrazione per il mancato o non adeguato rispetto della Direttiva per il trattamento delle acque reflue urbane: le procedure 2004/2034 e 2009/2034 sono già condanne con sanzioni, e sono in corso i due procedimenti 2014/2059 e 2017/2181 che ne annunciano altre.
Pagheremo, se tutto resta come è, qualcosa come 500 milioni all’anno fino al completamento di reti fognarie e depuratori in tutta Italia dove oggi 1.122 agglomerati comunali sono inadempienti con circa 2500 Comuni fuorilegge, il 70% nel Sud, e soprattutto in Sicilia. Solo due aree metropolitane italiane su 14 hanno scarichi urbani depurati al 100%: Firenze e Torino. Su questo rimosso nazionale il Pnrr di Draghi pone obiettivi netti, chiedendo a Regioni e Comuni del Sud di abbattere gli “ostacoli agli investimenti che sono stati insufficienti per anni e causano oggi rischi elevati e persistenti di siccità“, di “rafforzare il processo di industrializzazione” con operatori “pubblici o privati“, di garantire una governance dell’acqua riducendo la diffusa “frammentazione” e il disastro della depurazione e della fognatura con “895 agglomerati che hanno violato le direttive UE, con multe a oggi pagate da 68 di loro“.
Questo andazzo ci vede alle soglie, questa è l’altra verità, di un nuovo clamoroso “caso Milano”. Era il 22 aprile 1999 e quel giorno sul Governo italiano piombò il verdetto della Commissione europea allora presieduta da Romano Prodi. Bruxelles mise in mora Milano e l’Italia per il mancato rispetto della direttiva che imponeva la realizzazione di impianti di depurazione delle acque reflue sversate nei fiumi, nei torrenti, nei navigli, nel mare. La “capitale morale” era l’unica metropoli europea ancora priva di depuratori.
Gli impianti, ben tre, erano una promessa dal lontano 1984 ma 3 milioni di milanesi scaricavano tonnellate di escrementi, e le aziende valanghe di liquami, direttamente nel Lambro e nell’Olona da dove finivano nel Po e nell’Adriatico, dove sguazzavano d’estate anche frotte di milanesi in vacanza. Le multe furono salatissime e la Commissione europea non ammetteva più deroghe perché la gran parte d’Italia sulla depurazione era in condizioni altrettanto penose. Milano e l’Italia pagarono 300 milioni di vecchie lire per ogni giorno di ulteriore ritardo, qualcosa come 9 miliardi di lire al mese. Vent’anni dopo, qualcuno dovrebbe rispondere alla domanda: per quali motivi i depuratori sono ancora solo disegnati sulla carta in un terzo dell’Italia? È uno dei casi imperdonabili.
Per invertire il trend idrico, però, il capitolo del Pnrr “Tutela dei territorio e della risorsa idrica” destina appena 4,8 miliardi di euro, più circa 300.000 milioni di euro del fondo coesione React-EU. Una goccia nel mare delle necessità: 2 miliardi per le “infrastrutture idriche primarie per la sicurezza dell’approvvigionamento”, 900 milioni per la titanica “riduzione delle perdite del 15%” comprese digitalizzazione e monitoraggio delle reti, all’agrosistema irriguo 880 milioni, a depuratori e reti fognarie soli 600 milioni nonostante la descrizione della rete fognaria “obsoleta e non sempre presente, spesso non in linea con le Direttive europee, soprattutto nel Mezzogiorno…al fine di azzerare il numero di abitanti (ad oggi più di 3,5 milioni) in zone non conformi. Dove possibile, gli impianti di depurazione saranno trasformati in ‘fabbriche verdi’ per consentire il recupero di energia e fanghi e il riutilizzo delle acque reflue depurate per scopi irrigui e industriali”.
Mette sul piatto semplificazioni normative e rafforzamento di governance per il “completamento di grandi impianti incompiuti” chiarendo che al Sud “…è insufficiente la presenza di gestori industriali e l’ampia quota di gestione in economia traccia un quadro molto frammentato e complesso: i gestori sono 1.069, di cui 995 Comuni che gestiscono il servizio in economia (in particolare, 381 in Calabria, 233 in Sicilia, 178 in Campania, 134 in Molise)”.
Vero è che la mancata depurazione nelle regioni meridionali non è solo un problema di risorse che mancano. Varie Delibere del Cipe dal 2011 hanno finanziato a fondo perduto reti fognarie e depuratori per 4,3 miliardi. Un bel pacco regalo, visto che al centro-nord queste opere si costruiscono con le tariffe, ma in gran parte sulla carta. E allora, con coraggio, il governo imponga al parlamento la riforma della legge Galli del 1994.
Ha fatto il suo tempo, ha fatto crescere i volumi degli investimenti soprattutto nel centro-nord chiudendo emergenze croniche e storiche, ma se lascia 10 milioni di italiani ancora con problemi di acquedotti e circa 20 milioni con il mancato allaccio a fogne o depuratori – che paghiamo con l’inquinamento del 40% di fiumi e laghi e tratti di mare -, se dopo 27 anni sconta ancora difficoltà nell’applicazione, vuol dire che serve quantomeno un robusto restyling.
Il Parlamento, che per due anni è stato inchiodato alle audizioni sulla proposta di legge “per la ripubblicizzazione” che darebbe un colpo mortale alla capacità di investimenti a dimostrazione del paradossale case history italiano, riprenda la normativa sulla tariffa idrica-spezzatino che nel 1994 nacque con 92 bollette diverse per ognuna delle 92 nuove Autorità di Ambito locali in cui fu divisa l’Italia (un terzo non ancora costituiti), oggi scese a 63 con accorpamenti regionali. La tendenza generale consolidata tra i sindaci è a non aumentarle e, restando un tabù della politica è inutile farsi illusioni sull’impresa di tappare falle di questa portata.
Il fabbisogno di investimenti idrici – i più utili, green e anticiclici – è stimato da Utilitalia con un gettito aggiuntivo di almeno 5 miliardi all’anno. Tradotto, significa portare gli attuali 35 euro in media investiti ad abitante-anno (con meno di 10 euro nelle circa 2000 gestioni comunali, cioè zero) almeno a 80 euro (nei Paesi Bassi ne investono 129, nel Regno Unito 102, in Francia e Germania 88…) per realizzare il piano da 65 miliardi di euro complessivi nella pancia dei 63 Piani di Ambito. Per questo, il Parlamento dovrebbe aprire una discussione seria sulla tariffa unica nazionale sul modello dell’energia elettrica o del gas, regolata e definita dall’autority nazionale ARERA e dalle autorità locali.
ARERA può stabilire, nell’ambito del metodo tariffario, le componenti di costo riconoscibili, vincoli e ricavi e meccanismi perequativi dei vari gestori, e predisporre l’articolazione tariffaria nazionale che tutti i gestori sono tenuti ad applicare. Può essere definita ancora sotto i 200 euro all’anno a patto che per raggiungere i target europei il bilancio dello Stato si faccia carico di almeno 2,5 miliardi all’anno come obbligo per ridurre le sanzioni e tutelare ambiente e acque. Questo New Deal idrico potrebbe impegnare dai 160.000 ai 220.000 lavoratori in più, in un comparto che oggi ne occupa 180.000 più l’indotto.
L’occasione del World Water Forum del 2024 riuscirà a farci tornare ad occuparci di acqua, tema da serie A della politica per non continuare a scaricare i problemi di oggi sui nostri figli e nipoti, perché troppe crisi idriche sono crisi di infrastrutture idriche.