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Somaliland, qualcosa si muove? Steak & chips a Hargeisa

Il settimanale The Economist dedica, nel suo ultimo fascicolo, un editoriale sul non-Stato africano Somaliland, un’area che dopo essere stata colonia britannica, nel 1991 è diventata del tutto indipendente con elezioni periodiche e governi che si alternano. Ma non essere uno Stato impedisce al Paese l’accesso agli aiuti internazionali. L’Italia può promuovere una soluzione?

Cosa e dove è Hargeisa? È la capitale del Somaliland, un non-Stato povero ma funzionante da circa quaranta anni secondo un sistema democratico (o quasi), collocato in un luogo strategico del Corno d’Africa ma non riconosciuto quasi da nessuno. Se il settimanale The Economist dedica, nel suo ultimo fascicolo, un editoriale al tema, vuol dire che qualcosa si muove e che quindi è il momento di informare i lettori. Tanto più che il vostro chroniqueur è stato alcuni giorni ad Hargeisa, nel lontano agosto 1970 quando, a 28 anni, aveva per la prima volta il compito di guidare una missione di valutazione di progetti della Banca mondiale.

Allora, la Somaliland era la Regione settentrionale della Repubblica della Somalia. L’unificazione era avvenuta nel 1960 quando l’area (sino ad allora una colonia britannica) era diventata indipendente e “l’amministrazione fiduciaria” italiana sul resto della Somalia era cessata. In tempi coloniali, il Somaliland britannico era essenzialmente una riserva di carne bovina per Aden. Con la Somalia amministrata dall’Italia, aveva in comune le radici etniche della popolazione, la lingua (non scritta) e la organizzazione in kabilas, clan tribali. L’unificazione parve la soluzione logica: qualcosa di simile era avvenuto, in Africa occidentale, in Camerun, dove l’ex-colonia britannica si era fusa con quella francese e nel centro del Paese era stata edificata dal nulla una nuova capitale, Yaoundé, in stile Le Corbusier.

Il Nord della Repubblica della Somalia, tuttavia, per varie ragioni, restò differente dal resto nel Paese. Le kabilas del Somaliland erano use a una certa forma di concertazione e di consociativismo nell’organizzare i propri affari, mentre nel resto del Paese furono tenute tranquille per un quarto di secolo da un regime progressivamente sempre più autoritario, finito il quale si è da circa il 1990 in guerra tribale continua – con serie infiltrazioni dell’estremismo islamico. Tra il 1970 al 1989 sono tornato più volte in Somalia ed ho viso Mogadiscio evolvere da una piacevole cittadina arabeggiante in riva al mare ad una megalopoli confusa e caotica. Non ho più avuto occasione di tornare ad Hargeisa.

Della mia visita nel 1970, ricordo il clima temperato dell’altipiano e l’Hargeisa Club, all’epoca unico albergo, di stile britannico, dove mangiai un’ottima steak & chips. A Mogadiscio, all’epoca si mangiavano pietanze di carne unicamente a due club: quello delle Nazioni Unite e il Club La Vela, di cui erano soci prevalentemente gli italiani. All’unico albergo della capitale – la Croce del Sud – venivano serviti enormi piatti di spaghetti o maccheroni sovrastati da gustosissime aragoste bollite vive di fronte ai commensali.

Dal 1991, il Somaliland è in pratica del tutto indipendente, tiene periodicamente elezioni, i cambi di governo sono pacifici. Si dice che le kabilas si accordano sui candidati e sui risultati, ma tutto avviene tranquillamente. Sono nati anche una Università e un Politecnico. I quattro milioni e mezzo di abitanti sono in gran misura dediti alla pastorizia ed all’allevamento del bestiame, ma stanno nascendo piccole industrie e il porto di Berbera è in pieno sviluppo grazie al finanziamento di Paesi del Golfo. Se fosse uno Stato, il Somaliland sarebbe un modello per il resto dell’Africa. Ma non lo è perché l’Unione Africana applica la “dottrina” in base alla quale restano le frontiere definite in epoca coloniale tranne che non ci sia un “divorzio” consensuale. Ciò nel tentativo di contenere le guerre e guerriglie già in corso perché tali confini vennero tracciati senza tenere conto di identità etniche e tribali. A Mogadiscio c’è il caos, quindi nessuno con cui negoziare; ove ci fosse, non mollerebbe la presa su un Nord che funziona ed è dotato di un porto importante.

Non essere uno Stato impedisce al Somaliland, l’accesso ad aiuti internazionali (Unione Europea, Banca mondiale, Banca africana di sviluppo, ecc.) e lo frena il poco sviluppo possibile.

Che fare? Potrebbe l’Italia che ha avuto grandi responsabilità nell’area promuovere una soluzione? Giriamo la domanda alla Farnesina.


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