La numero tre del partito sta per pagare con la propria carica la sua opposizione allo strapotere di Trump. Ma mentre il GOP si appoggia sempre più all’ex presidente, i repubblicani rischiano di legarsi mani e piedi al suo destino
I repubblicani statunitensi stanno assistendo al progressivo e apparentemente irreversibile processo di trasformazione del loro partito nel partito di Donald Trump. Nonostante sia silenziato sui social dopo l’assalto a Capitol Hill e confinato nella sua residenza di Mar-a-Lago in Florida, l’ex presidente ha ancora una presa solidissima sulla base del Grand Old Party.
Almeno sei repubblicani su dieci credono che le elezioni del 2020 siano state “rubate” (uno degli argomenti principali di Trump, che si considera ancora il presidente legittimo). Ma adesso l’adesione a questa narrativa – infondata, di natura cospirazionista e confutata da 60 verdetti giudiziari e svariati controlli sulle schede elettorali – è il nuovo parametro con cui si misura la lealtà degli esponenti del partito.
Il caso di Liz Cheney, repubblicana da una vita e figlia del vice di George W. Bush tanto amato dalla destra americana, è emblematico. La numero tre del GOP è un astro del partito, una fervente conservatrice e una delle figure storicamente più fedeli all’approccio trumpiano (nella scorsa legislatura ha votato in linea con Trump circa nove volte su dieci). Ma è anche una delle poche voci repubblicane in Parlamento ad aver osato condannare pubblicamente il ruolo di Trump negli eventi dello scorso 6 gennaio, arrivando addirittura a votare per il suo impeachment nel processo svoltosi poco dopo.
Mentre la maggior parte dei repubblicani, seguendo il loro elettorato, si sono avvicinati alla posizione di Trump, Cheney è diventata l’autorità repubblicana più critica in assoluto. In un editoriale pubblicato la settimana scorsa sul Washington Post la parlamentare ha accusato l’ex presidente di minare il processo democratico, sparando a zero contro i repubblicani che “rigettando i princìpi conservatori” scelgono “il culto di personalità, antidemocratico e pericoloso, di Trump”.
“Il Partito repubblicano è a una svolta,” ha scritto Cheney, “i repubblicani devono decidere se scegliere la verità e la fedeltà alla Costituzione […] La domanda che dobbiamo porci ora è se vogliamo unirci alla crociata di Trump per delegittimare e annullare il risultato legale delle elezioni del 2020, con tutte le conseguenze del caso”. Con un avvertimento: anche se scegliere la linea trumpiana può pagare nel breve periodo, l’approccio causerà “un danno profondo e a lungo termine al nostro partito e al nostro Paese”.
Ma il dado è tratto. Sono tanti i repubblicani che spingono da settimane per rimuovere Cheney, tra cui il numero due Steve Scalise, e domani (mercoledì 12 maggio) il partito voterà quasi certamente per sostituire la parlamentare ribelle con una giovane stella nascente del GOP, Elise Stefanik, che pur avendo un curriculum di votazioni ben più moderato di Cheney è diventata una delle maggiori sostenitrici delle posizioni di Trump, specie dopo gli eventi di Capitol Hill.
Eletta a soli 30 anni, Stefanik (ora trentaseienne) era considerata una parlamentare tra le più bipartisan in assoluto, elogiata per il suo impegno nel portare più donne possibile in, e vicino alla, politica. Nelle primarie del 2016 aveva accettato controvoglia la nomina di Trump solo dopo la sconfitta dei suoi oppositori. Ma la sua accanita difesa dell’ex presidente a gennaio 2021 ha prodotto degli spezzoni di video virali molto graditi dall’accusato, che ne ha cantato le lodi. Questo si è tradotto in supporto finanziario immediato da parte del movimento Make America Great Again, che le ha accordato più di $13 milioni, ossia il quintuplo del finanziamento elettorale più grande che avesse mai ottenuto.
Stefanik ha già dietro di sé il supporto delle alte sfere del partito repubblicano (incluso il numero uno Kevin McCarthy) e assieme al governatore della Florida Ron DeSantis è tra coloro che possono ambire ad avere un futuro roseo nel partito di Trump. La loro retorica è totalmente in linea con quella dell’ex presidente, consente a loro di parlare con la base e di puntare ai prossimi obiettivi elettorali – le midterms del 2022 e le presidenziali del 2024 – gettando il loro nome in prima fila per aspirare ai ruoli più importanti.
Ma la Trumpizzazione del partito, avvertono dal comitato editoriale del Financial Times, potrebbe costare loro – e il GOP in generale – il proprio futuro politico. “Da [gli eventi di Capitol Hill] il linguaggio di Trump è diventato solo più minaccioso. I repubblicani che pensano di poter tenere la testa bassa e aspettare che finisca l’era Trump probabilmente si stanno illudendo. Trump sta solo consolidando la sua presa sul loro partito e sta chiaramente pianificando una corsa presidenziale nel 2024”.
Non è detto che la mania trumpista duri fino al 2024. Gli ultimissimi sondaggi di NBC danno il sorpasso dei repubblicani che sono fedeli al partito (50%) rispetto a quelli fedeli a Trump (44%) per la prima volta dal 2019. E gli elettori americani con un’opinione favorevole di Trump oggi sono il 21%, giù dal 33% registrato sotto le elezioni del 2020. Peraltro, l’indice di gradimento del tycoon non è mai salito oltre il 50%, nemmeno durante il suo mandato.
Nel frattempo, però, Trump ha in mano il futuro del partito repubblicano, il cui obiettivo a breve termine è strappare il triplete Camera-Senato-presidenza al Partito democratico con le midterms del 2022 e mettere un repubblicano alla Casa Bianca nel 2024. Resta da vedere chi sarà quel repubblicano.