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Crisi climatica e conflitti in Africa. La riflessione di Franceschini

Di Beniamino Franceschini

In Africa, gli effetti potenzialmente devastanti della crisi climatica si inseriscono in uno scenario già caratterizzato da instabilità e conflitto, creando un pericoloso circolo vizioso. Quale ruolo per la Nato e l’Europa? Risponde Beniamino Franceschini, vicepresidente de Il Caffè Geopolitico responsabile del desk Africa

Secondo l’Internal displacement monitoring centre (Idmc) nel 2019 erano circa 3,5 milioni gli sfollati interni (Idp) nell’Africa subsahariana a causa di crisi ambientali, una cifra che potrebbe quintuplicare entro il 2050. Complessivamente tra il 2008 e il 2018 gli africani costretti a spostarsi per disastri naturali sono stati oltre 21 milioni, con calamità che hanno coinvolto quasi tutti i Paesi del continente, ma soprattutto il Sahel e le regioni orientali. Queste emergenze si sovrappongono in molte zone a crisi politico-economiche e conflitti strutturali, avviando una spirale che si autoalimenta: i cicli climatici alterati, oltre al rischio immediato per la salute e la sicurezza alimentare, innescano instabilità, impoverimento e migrazioni, che a loro volta acuiscono le difficoltà nella governance ambientale, con conseguenze estese anche in regioni non strettamente coinvolte.

Da un punto di vista europeo, però, non tutte le crisi in Africa hanno un impatto che si ripercuote direttamente sul Mediterraneo o comunque sul fronte meridionale della Nato. Ai fini della sicurezza anche italiana un’attenzione primaria dovrebbe essere posta su Sahel e lago Ciad, sul bacino del Nilo e sul Corno d’Africa, tre zone nelle quali le calamità si sommano – con reciproca influenza – a minacce multidimensionali dal grande riverbero.

Il Sahel – riguardo al quale il rapporto tra cambiamenti climatici e migrazioni è stato evidenziato recentemente anche dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, è sempre più interessato da fenomeni naturali estremi, che si tratti di desertificazione o inondazioni. Nel luglio 2020, durante un incontro del Consiglio di sicurezza dell’Onu sui cambiamenti climatici, Mahamadou Seidou Magagi, direttore del Centre national d’études stratégiques et de sécurité del Niger, ha riportato come l’85% dei disastri naturali nel Sahel degli ultimi quarant’anni si sia concentrato dal 2001 a oggi. Il decennio appena concluso, per esempio, ha visto la parte occidentale della regione colpita da eventi che hanno condotto quasi 20 milioni di persone in condizioni di insicurezza alimentare, in un panorama aggravato dalla guerra contro il jihadismo e da importanti rotte migratorie.

Uno scenario molto complesso è poi il lago Ciad, il cui bacino è condiviso da Niger, Ciad, Camerun e Nigeria. Un tempo straordinaria fonte di vita, la sua superficie, di per sé fortemente variabile, si è ridotta drasticamente sin dagli anni Sessanta, passando da una media durante la stagione delle piogge di 20mila chilometri quadrati ai circa 2mila attuali. Il ritiro delle acque, con un loro spostamento verso Ciad e Camerun, ha ingigantito le tensioni tra le popolazioni locali, all’interno di un quadro etnico di per sé intricato. Il lago inoltre è al centro dell’areale d’azione della galassia jihadista e criminale di ambito nigeriano (in particolare Boko Haram, Ansaru e la Provincia Africa occidentale dello Stato islamico), senza dimenticare le mai del tutto sopite rivalità tra i quattro Stati rivieraschi. I dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) sono allarmanti: nel 2018 gli sfollati nel bacino del lago erano 2,5 milioni, mentre le alluvioni del 2020 hanno privato della casa circa 400mila persone nel solo Ciad. Per quanto la quasi totalità dei rifugiati sia dovuta a situazioni di conflitto, è difficile separare nettamente i fattori in un contesto di crisi multidimensionale, laddove movimenti di massa, accesso alle risorse ed equilibri etnici sono interdipendenti.

Un’altra regione fortemente colpita da calamità naturali che si sommano a crisi strutturali è il Corno d’Africa. L’Africa report on internal displacement 2019 dell’Idmc mostra che nel 2018 Etiopia, Somalia, Kenya e Uganda dovettero gestire almeno 1,5 milioni di sfollati per motivi ambientali, un numero senz’altro incrementato a fronte di un 2020 con cavallette, inondazioni e siccità. Anche in questo caso i disastri colpiscono Paesi già in difficoltà, basti pensare alla presenza di al-Shabaab, ai conflitti interni in Etiopia o alla difficile amministrazione dei campi profughi in Kenya, soprattutto in tempo di Covid-19. Le strutture di Dadaab, che nel 2011 accolsero 130mila somali in fuga dalla carestia, oggi ospitano 220mila persone. Le emergenze climatiche nel Corno d’Africa sono strettamente connesse a quelle del quadrante settentrionale dell’Africa orientale, tra le quali, per citare alcuni termini di riferimento, le problematiche del bacino del Nilo, fiume al centro di un contenzioso non del tutto pacifico tra Addis Abeba, Khartoum e il Cairo sulle alterazioni del regime idrico che saranno causate dalla diga etiope Grand ethiopian renaissance sam (Gerd). La stessa Etiopia, tra l’altro, sconta storicamente l’impatto delle calamità: le aree orientali del Paese stanno attraversando dal 2015 una lunga siccità che mette a rischio oltre 10 milioni di persone, mentre le alluvioni del 2020 hanno causato circa 300mila Idp, colpendo regioni nelle quali i profughi per conflitti e violenze erano già più di un milione.

Questi fenomeni risentono anche di quanto accade nel Sudan del Sud, dove gli eventi avversi e la gestione delle risorse naturali sono il pretesto per scontri etnico-tribali che non di rado, per dinamiche transfrontaliere e legami internazionali, assumono rilevanza regionale, scatenano episodi di xenofobia contro i rifugiati e influiscono sull’innesco di catene migratorie, con pressione diretta sui Paesi limitrofi e indiretta sulle rotte dall’Africa orientale verso nord e dal Sudan verso ovest.

Senza mai tralasciare l’aspetto umanitario, è evidente che da un punto di vista di governance internazionale e di sicurezza anche europea sia fondamentale comprendere quanto i fattori climatici possano condizionare i conflitti simmetrici e asimmetrici, ma non ne siano sempre la causa primaria, inserendosi spesso in crisi stratificate e multidimensionali. In alcune circostanze la riduzione del rischio ambientale può depotenziare le tensioni, però una delle principali raccomandazioni sarebbe capire per ogni caso quali siano la correlazione e la successione tra le varie dinamiche, per esempio se in una stessa regione una siccità o un’inondazione possano mettere in moto dinamiche e attori diversi. I disastri naturali, talvolta favoriti da una governance debole, in Africa  si sovrappongono spesso a dinamiche complesse e transnazionali preesistenti, dall’insicurezza alla fragilità istituzionale, dalla disuguaglianza economica alla compressione dei diritti umani, cosicché l’unica via è un approccio internazionale di lungo periodo.

Le iniziative per la salvaguardia ambientale devono essere integrate con la governance politica e la mediazione dei conflitti connessi, per interrompere i rapporti di causa-effetto solo apparentemente inevitabili. Da un punto di vista strategico occorre anche comprendere quali siano gli spazi geopolitici subsahariani le cui crisi climatiche possano impattare direttamente sull’Europa in termini di sicurezza e migrazioni, un approccio tra l’altro adottato – con luci e ombre – nello European union Emergency trust fund for Africa (Eutf). Questa consapevolezza è ben presente nella Nato, che, interpretando i cambiamenti climatici come una minaccia alla pace e alla sicurezza, sta inserendo le questioni ambientali nella pianificazione della strategia e delle operazioni, preparando le proprie forze per reagire in modo mirato ai disastri naturali, anche basandosi sull’esperienza della pandemia.



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