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Phisikk du role – Lo stipendio di Draghi e il voyeurismo politico

Nella narrazione illetterata che si è ormai insediata nel comune sentire, anche il nobile gesto rischia di diventare nutrimento per un’idea traversa. Quella che si può anche lavorare a gratis e che, in fondo, la sfera politica è una dimensione per gente che ha già di suo tanto e che può benissimo dare il suo tempo e la sua professionalità senza chiedere niente. La rubrica di Pino Pisicchio

Il velo della sobrietà, alla fine, diventa più penetrabile dell’esposizione programmata alla libidine del voyeurismo politico, attività di cui si nutre il populismo a tutte le latitudini di questo mondo e di quell’altro. Dunque la scelta silenziosa di Draghi di rinunciare all’indennità spettante per legge al presidente del Consiglio, è deflagrata sui media. Scelta buona, scelta cattiva? Scelta sua, che va rispettata, soprattutto per l’intenzione di non ostentarla. Ma che solleva anche problemi che sarebbe ipocrita tacere.

La politica non è un mestiere: dovrebbe essere mossa da passione, certo, ma sicuramente è un servizio, che si svolge nel contesto più aleatorio che si possa immaginare, quello del “sentiment” popolare. Senza scivolare nell’inutile erudizionismo sulle origini del Parlamento e dell’indennità dei rappresentanti del popolo, e per restare alla nostra Costituzione, ricorderemo che fu proprio Mortati a proporre nell’assemblea costituente (seduta in II sottocommissione del 20 settembre 1946) la formula che oggi è scolpita nell’art. 69: “I parlamentari ricevono una indennità stabilità dalla legge”. Quale sia il senso è facile capirlo: l’accesso al ruolo di rappresentante del popolo dev’essere consentito a tutti e non solo a quelli che, per censo, possono permettersi di svolgerla. Non a caso nello statuto Albertino (art.50, soventemente richiamato nell’ordalia dei blog antipolitica in giro per il web) veniva imposta l’assoluta gratuità del mandato: era un Parlamento di notabilato, in cui l’eventuale indennità avrebbe rappresentato per il nobile percettore poco più di un argent de poche.

Dunque la politica forse non è una professione, ma va esercitata con professionalità e, per il tempo in cui le responsabilità pubbliche sono date in affidamento ad un rappresentante, adeguatamente remunerate. “Adeguatamente” anche per evitare tentazioni che possono distogliere dalla retta via del bene comune.

Il principio negli ultimi anni di delirio è stato rimosso e addirittura capovolto: nella gara a chi la sparava più grossa non solo si è accarezzato in modo volgare e semplicistico il pelo del corpo elettorale portando sempre più in alto la furia iconoclasta dei giacobini di casa nostra, ma si sono anche irreversibilmente mutilate le istituzioni (una per tutte: taglio dei parlamentari per risparmiare sugli stipendi!!!), insufflando un’aura di colpevolezza nei confronti di chi ricopre incarichi pubblici remunerati, incarichi che nel settore privato avrebbero valori almeno doppi o tripli. Dimenticando, comunque, che il problema centrale è la competenza con cui si esercita la funzione pubblica. Torniamo a Draghi. Ha rinunciato a 6.700 euro al mese. Pochi? Molti? Non è questo il punto.

Il punto è che nella narrazione illetterata che si è ormai insediata nel comune sentire, anche il nobile gesto rischia di diventare nutrimento per un’idea traversa. Quella che si può anche lavorare a gratis e che, in fondo, la sfera politica è una dimensione per gente che ha già di suo tanto e che può benissimo dare il suo tempo e la sua professionalità senza chiedere niente. Come facevano i nobili dell’Ottocento, ai tempi dello statuto Albertino.


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