Mettiamo al primo posto le infrastrutture. Il resto, dal green al digitale, verrà per inerzia. Nel Recovery ci sono 25 miliardi, sono pochi. Caro ministro Giovannini, questa volta una “manina” in più non farebbe male. L’analisi di Michele Geraci, professore alla University of Nottingham Ningbo China e già Sottosegretario al Mise
Una delle cause che frena lo sviluppo economico del Paese è la nostra tendenza a dover soddisfare vari interessi e quindi diluire l’impatto delle misure economiche ed interventi fino a renderle così frammentati da risultare inutili per il Paese.
Spesso tali misure solo addirittura soluzione sbagliate, frutto di mancanza di analisi, ma anche in quei casi rari in cui si tratti di misure rilevanti, esse sono così poco coraggiose, tenui, poco incisive e mai contestualizzate in una soluzione sistemica da perdere anch’esse la loro originale utilità potenziale.
Molte iniziative economiche posseggono delle non linearità bipolari: o funzionano o falliscono, senza vie di mezzo e quindi richiedono l’assoluta completa realizzazione dei progetti, pena l’azzeramento completo dei ritorni. Pensate ad un’autostrada progettata per 100km: o si completa tutta, o se restano solo 10 chilometri non realizzati, il ritorno non è 90% del previsto, ma 0%. Sono interventi che comunque costano, quindi il debito sale, il Pil no, ed il rapporto debito/Pil aumenta.
E quindi con questa premessa che avevo sperato che il PNRR si scostasse da questo modo di fare tipico nostro e che la grande competenza del nostro Primo Ministro avesse la meglio sui desideri delle varie fazioni politiche, forse interessate meno al bene del paese nel suo insieme e più devote invece ad ottenere una fetta del Recovery Plan in proiezione elettorale. Dal momento che tra 18 mesi si scioglieranno le Camere, più passa il tempo e più questa spinta pro domo sua sarà sempre più forte e quindi più improbabile il rilancio dell’Italia.
Con ciò non voglio assolutamente bocciare il PNRR nella sua interezza, ma quello che mi ha particolarmente deluso è il paragrafo sulla spesa per investimenti in infrastrutture di alta velocità: totale 25 miliardi in sette anni. Troppo poco e troppo frammentato. Il PNNR correttamente ricorda che il 90% del traffico passeggeri (860 miliardi di passeggeri-km all’ano) viaggia su strada e soltanto il 6% su rotaia, mentre la media europea del traffico su rotai è del 7.6%, con Francia 11%, Gran Bretagna 10%, Germania 9% e Spagna 7%.
È obbiettivo quindi usare questi 25 miliardi per portare l’Italia in linea con la media Ue del 7.6% attraverso una serie di interventi su varie tratte. Voglio porre delle domande, sincere: crediamo veramente che portare la percentuale di traffico su rotaia dall’attuale 6% al 7.6% cambierà forse qualcosa per il Paese? Accorciare il tempo di percorrenza della Palermo-Catania dalle attuali 3 ore a 2 ore e mezzo (200km, quindi media 100km/ora) rappresenta quel salto quantistico di rilancio per il futuro del Meridione? E quale spinta sistemica avrà la tangenziale di Trento? E quanti benefici porterà il risparmio di 15 minuti sulla Roma-Ancona (da 4 ore a 3.45).
Se questo Recovery Plan è veramente, e lo è, l’ultima vera occasione per fare investimenti, il messaggio ai miei amici siciliani è, au-contraire, di mettersi il cuore in pace, che dopo aver speso i fondi del Recovery Fund arriverà il momento di ripagarlo (è quasi tutto debito, sia chiaro) e quindi la Palermo-Catania non verrà mai più migliorata e l’alta velocità da Roma a Palermo resterà una chimera, ponte sullo stretto compreso.
Quindi il divario nord-sud aumenterà, non servono troppe analisi per intuirlo. Sei mesi fa, in uno slancio di ottimismo avevo suggerito un diverso approccio al Recovery Plan: ispirandomi alla visione alla Kennedy: che disse: “Andremo sulla Luna”, non: “Rafforziamo la Orte-Falconara” avevo proposto “Palermo-Berlino in 8 ore”, semplice e fattibile (2.400 km a 300km/h); poi, tutto il resto sarebbe stato “trickle down” di indotto. Pensate cannoli a colazione e Spätzle la sera.
Questa frammentazione di obbiettivi è dispersiva. L’Italia ha invece bisogno di una rivoluzione nel modo di fare, non di un’evoluzione, non di procedere a passettini con la filosofia “beh, intanto facciamo questo, poi vediamo”. Un modo di pensare perdente, come lo è chi, a scacchi, direbbe: “Beh, intanto muovo questo pedone, poi vediamo”.
Ma le cose sono ancora più gravi. Il problema non è soltanto la frammentazione dei 25 miliardi di spesa in infrastrutture, ma che i 25 miliardi sono una cifra molto al di sotto di quello che serve per portare il paese nella modernità e trasformare il modo di viaggiare in uno più green e più sicuro, come sono appunto le ferrovie.
Il problema di base è anche la limitata ambizione dell’obiettivo, dal momento che la media europea del 7.6% su rotaia non rappresenta assolutamente il miglior benchmark mondiale. I paesi che hanno veramente usato l’alta velocità per trasformare le propria economia e società sono in Asia: Cina e Giappone. Guardiamo i loro numeri così capite che stiamo inseguendo delle bandierine politiche “allineati alla Ue”, senza alcun vantaggio per la vita reale dei nostri cittadini ed imprese.
Immediatamente dopo la crisi del 2008, la Cina ha deciso di investire nel trasporto ferroviario ed in soli 12 anni ha esteso la rete ad alta velocità da 150 km di allora ai quasi 35.000 di oggi. Nel solo primo anno, nel 2009, hanno investito 85mld di euro, più del triplo dei nostri 24 spalmati su 7 anni, equivalenti a 3.5mld all’anno in media. Quindi loro 85/anno, noi 3.5mld/anno.
Ovvio che essendo la Cina un’economia più grande della nostra, i numeri non sono comparabili, ma passando ai rapporti la musica non cambia: il loro investimento di 85 miliardi di euro equivale al 1.8% del Pil, mentre i nostri 3.5mld sono allo 0.2%, circa 10 volte di più. E così, quasi, per ognuno degli anni successivi per un totale di investimenti in alta velocita ferroviaria pari a mille miliardi di euro. Noi 25.
Ma gli investimenti sono, naturalmente, solo l’input di un processo ed è giusto analizzare i risultati, l’output, per comprendere l’efficacia di tale piano. Per avere un termine di paragone, usiamo, così come fa il nostro PNRR, la percentuale di traffico ferrovie su totale. Ricordiamo, nel nostro piano vogliamo passare il traffico a rotaia dal 6.0% a 7.6% e quindi, il traffico su strada dal 90.0% all’88.4% (il resto sono altri mezzi).
All’inizio del programma nel 2009, in Cina il traffico passeggeri su rotaia era circa un terzo del totale, mentre il traffico su strada costituiva il rimanente due terzi del totale. Oggi, in Cina, dopo 10 e mille miliardi, il traffico su rotaia è due terzi del totale e quello su strada un terzo: in un solo decennio hanno ribaltato la situazione. Ma c’è di più: non soltanto il rapporto ruota/totale si è dimezzato passando da due terzi ad un terzo, ma anche il numero assoluto di passeggeri-km all’anno ha avuto un picco nel 2012, tre anni dopo il lancio del programma, ed è crollato a valori di inizio anni 2000. In pratica, in un paese dove tutto cresce, la gente oggi viaggia meno su strada ora di quanto facesse prima.
Oggi, la Cina ha una rete di trasporti più sicura, più ecologica e sempre puntuale. Questa è stata una grande rivoluzione che ha portato benessere nelle zone rurali e meno sviluppate dell’Ovest della Cina, ha aumentato l’efficienza economica del paese intero dal momento che, oltre al viaggiare a 330km/h, si può programmare la giornata lavorativa contando sulla estrema puntualità, caratteristica che condividono con il Giappone, senza dover, come da noi, creare un buffer ritardo trascorso in una improduttiva attesa lungo i binari ed ha consentito lo sviluppo di città satelliti dove il commuting giornaliero e’ diventato realtà, alleggerendo il peso anche del traffico auto urbano
Mi piacerebbe che anche noi potessimo usare questa grande occasione fornitaci da questa grande crisi per un cambio di passo, per una rivoluzione. La Cina ha ridotto il traffico su strada dal 65% al 33% del totale, e noi abbiamo come obiettivo la riduzione di 1.6%, da 90% a 88.4%, sempre la politica dello zero virgola che ci assilla. Questa volta, arrivare at par con l’Europa non serve a nulla.
Le riprese economiche sono sempre state accompagnate da un boom immobiliare, cosa impossibile da noi; la seconda alternativa è quindi il settore delle infrastrutture. Mi appello al ministro delle infrastrutture Giovannini, naturalmente grande esperto di numeri, che sono sicuro che condivide la mia preoccupazione. Consentitemi un invito ironico, ma fino ad un certo punto: uno zero in più, caro Ministro, passiamo a 250miliardi, per una volta una “manina” utile. Per il paese. Mettiamo tutto in infrastrutture. Il resto delle mission, green, digitale, inclusione etc., seguirà di inerzia e si realizzerà naturalmente.