M5S ha un bel po’ da fare. E lo deve fare alla svelta. La posta in palio è quella che i colti chiamano eterogenesi dei fini: rimanere al prossimo giro fuori dal nuovo Parlamento, fortemente voluto dal Movimento nel formato drasticamente ridotto, perché diviso e ridotto anch’esso, al punto da non superare i nuovi più alti sbarramenti posti dal formato bonsai
Premessa: Da queste colonne abbiamo soventemente affrontato il problema della crisi irreversibile dei partiti, della loro riduzione ad apparati esornativi del leader di turno, del cesarismo incalzante e della rottura del rapporto con la base elettorale. Abbiamo cercato di raccontare che peso ha avuto in questa deriva l’avvento di sistemi elettorali che rimuovevano il senso della solidarietà tra candidati ed esaltavano il culto del capo, proprio quello che, guarda caso, fa le liste bloccate. Se ragioniamo, allora, dei problemi del Movimento Cinque Stelle, in via di scivolamento verso una vicenda giudiziaria, come strascico ineluttabile del divorzio dell’establishment con Casaleggio, che si annuncia dolorosa, si comprenderà come quest’attenzione segua il filo di una curiosità, per così dire, scientifica.
Siamo in un Paese che si lamenta della giustizia per poi correre nei tribunali appena può. Dunque anche ciò che dovrebbe essere materia viva e non impacchettabile in rescritti e codici inversi, come il partito politico, entra nei tribunali come certe vecchie coppie di coniugi con decenni di vita matrimoniale alle spalle che, nell’età della pensione, decidono di divorziare sputtanando tutto il possibile per ottenere qualche suppellettile in più dei beni una volta felicemente condivisi. Insomma, avete presente la guerra dei Rose’s vent’anni dopo? Una cosa così, solo che quando i partiti arrivavano in tribunale era proprio finito tutto: non solo l’affectio tra i congiunti, ma proprio la ragione del partito. Fu così per la Dc, che ha continuato a vedere per anni signori semisconosciuti impegnati a contendersi il simbolo presumendo di rivenderselo alle elezioni (e, ho perso le ultime tracce, forse non ha esaurito il contenzioso); così è avvenuto per il vecchio PSI di Craxi (peraltro pieno di debiti) e per altri.
Nel caso di M5S abbiamo, però, ancora un soggetto politico vivo e vegeto nel Parlamento italiano, che, nonostante le numerose transumanze verso gruppi presuntivamente più accoglienti e rassicuranti su futuri personali magnifici e progressivi, contano ancora, tra Camera e Senato 238 iscritti in questa legislatura e si presentano come azionisti di peso nell’elezione del nuovo Capo dello Stato. E questa è la risorsa più concreta del Movimento adesso. Ma i punti di fragilità sono molti. Il primo fra tutti la transustanziazione da elemento chimico nebuloso tenuto insieme da parole d’ordine antagonistiche, a partito. Peraltro partito di governo, e per ciò stesso, vocato a narrazioni d’ordine e ad approcci istituzionali. Trasformazione difficilissima: un po’ come passare da Lotta Continua alla corrente Dorotea di Mariano Rumor.
Ma, nella stagione post-ideologica, l’impresa non è impossibile, soprattutto se la base sociale del consenso si identifica con la piccola borghesia. Che è la stessa dei vecchi partiti di massa. Questo Di Maio l’ha capito. Conte l’ha impersonato da capo del governo: la guida verso la trasformazione nella forma-partito, però, è cosa diversa dal governare come “tecnico di area” un governo con larga base di consenso pentastellata: per chi viene da altri mestieri quello della politica politicante si mostra faticosissimo e spesso incomprensibile. Perché non esistono regolarità, ma si mischiano psicologie, logiche politiche generali, personalismi, piccoli e grandi cabotaggi senza ordine e senza gerarchia di valori. Si vedrà, ma bisognerà che accada subito, perché il tempo per organizzarsi si sta esaurendo e, con l’avvio del semestre bianco, questa estate, sarà lo start al “tutto può accadere”.
Peraltro la frattura tra le due visioni dell’essere pentastellati, da un lato legittimisti pro-governo e dall’altro nostalgici della scatola di tonno, non potrà contare su qualche recupero dell’ultimo momento offerto dalla rete di protezione che Beppe il “fondatore” ha saputo sempre assicurare nei momenti critici, per ragioni comprensibili. In questo contesto, inoltre, in cui viene enfatizzata l’alleanza con il Pd (con la possibile adesione al Partito Socialista Europeo), c’è anche il rischio di svolgere un ruolo ancillare nei confronti di un partito come quello dei dem, abbastanza acciaccato, non c’è dubbio, e tuttavia più a suo agio in una sede europea vissuta da sempre in modo esclusivo per l’Italia e più caratterizzato nel suo ruolo di sinistra riformista.
Insomma il M5S ha un bel po’ da fare. E lo deve fare alla svelta. La posta in palio è quella che i colti chiamano eterogenesi dei fini: rimanere al prossimo giro fuori dal nuovo Parlamento, fortemente voluto dal Movimento nel formato drasticamente ridotto, perché diviso e ridotto anch’esso, al punto da non superare i nuovi più alti sbarramenti posti dal formato bonsai.