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Prima di pensare alla Biden tax, riformiamo giustizia e Pa

In Italia si è aperto il dibattito sulla cosiddetta “Biden tax”, che secondo un articolo a firma di Romano Prodi e Vincenzo Visco eliminerebbe le distorsioni causate dai “paradisi tributari” se estesa a tutti i Paesi Ocse. Ma questa imposta nasce per il sistema tributario americano… L’analisi di Giuseppe Pennisi

Da qualche giorno, sulla stampa italiana (molto meno su quella del resto d’Europa) infuria una polemica in merito a quella che potremo chiamare, per semplicità giornalistica, la “Biden tax” ossia un’imposta minima del 21% sugli utili societari nei Paesi industrializzati ad economia di mercato, in breve l’area Ocse.

In Italia, la confusione è stata aggravata da un articolo di Romano Prodi e Vincenzo Visco secondo cui l’estensione a tutti i Paesi Ocse della “Biden Tax” eliminerebbe le distorsioni causate da “paradisi tributari”, nell’area stessa dei Paesi industrializzati ad economia di mercato; tali “paradisi” distorcerebbero decisioni aziendali e mercati inducendo le grandi imprese, e soprattutto i colossi del web, a scegliere Paesi con fiscalità di vantaggi come sede legali per le loro operazioni.

Occorre mettere le carte (ossia le informazioni) un po’ in ordine. In primo luogo – spiace la ripetizione – la “Biden Tax” è stata proposta per mettere ordine nel sistema tributario americano. Negli Stati Uniti, le imposizioni sulle imprese e le imposte indirette sono, quasi esclusivamente, nelle competenze non del governo federale ma degli Stati dell’Unione, delle contee, delle aree metropolitane e dei comuni. Nel 2019, c’erano 218 “giurisdizioni tributarie” – cambiano di anno in anno a ragione, ad esempio, di aggregazioni o di scissioni. In gran misura, hanno aliquote di imposta sugli utili delle persone giuridiche inferiori al 25%; 111 hanno aliquote tra il 20 e il 30%. L’aliquota tributaria media tra le 218 “giurisdizioni” è del 22,79%. La “Biden Tax” porterebbe una certa uniformità anche in quanto l’aliquota minima sarebbe solo leggermente più bassa di quella che oggi è la media.

Ne risulterebbe penalizzato lo Stato di cui Biden è stato per circa cinquant’anni deputato e senatore: il Delaware, dove l’aliquota è dell’8,7%. Attenzione: il diritto tributario americano consta di venti volumi in continuo aggiornamento. Alle imprese la cui sede sociale è in Delaware, oggi l’imposta si applica unicamente sugli utili prodotti nel Delaware medesimo; quindi, possono sfuggire legalmente a gran parte dell’imposizione sugli utili prodotti altrove. Ciò avviene anche in altri Stati dell’Unione. Biden ha sempre vissuto nel Delaware e, quindi, se ne intende. La sua proposta è mirata ad eliminare distorsioni di questa natura.

Mentre la “Biden Tax” non ha ancora iniziato il suo percorso (tutto in salita) al Congresso – muterebbe drasticamente i principi di base del “federalismo fiscale” americano -, entra sulla scena Janet Yellen, Segretario del Tesoro. In un paio di interviste, suggerisce che se tutte le multinazionali pagassero un’aliquota minima d’imposta sui loro profitti del 21% – indipendentemente da dove è la loro sede legale, si risolverebbe il problema della “iniqua concorrenza tributaria”. Al momento, che si sappia, non c’è una proposta formale del Governo americano in sede Ocse, l’organizzazione internazionale che da un paio di decenni sta studiando il problema, tentando di trovarne una soluzione.

Occorre chiedersi se la “Biden Tax”, estesa, ad esempio, ai Paesi Ocse, potrebbe rallentare o bloccare l’emigrazione verso “paradisi fiscali” nell’area stessa dei Paesi industrializzati ad economia di mercato. Facciamo due passi nella teoria. Uno studio fondamentale di Arnold Harberger del lontano 1962 concluse che se aumenta l’imposizione su uno dei fattori di produzione (il capitale), le imprese si rivalgono sull’altro (il lavoro). Lo studio di Harberger si basava su numerose ipotesi semplificative. Non molto tempo fa, Lawrence Klotikoff dell’Università di Boston e l’ex Segretario al Tesoro Lawrence Sumners, ora ad Harvard, sono arrivati alla stessa conclusione sulla base di dati empirici degli ultimi cinquanta anni. Anche per questa ragione, negli stessi Stati Uniti, la strada è impervia.

È giunta a supporto della “Biden Tax” una giovane economista americana, che Biden ha nominato vice segretario al Tesoro, Kimberly Clausing. Ha pubblicato circa un anno fa un’analisi comparata di tutti i Paesi Ocse che in sostanza mette in serio dubbio le conclusioni di Harberger, Klotikoff e Sumners: in breve, non si deve temere una compressione salariale. Ove estesa a tutti Paesi Ocse – sostiene Kimberly Clausing – la misura potrebbe frenare l’emigrazione verso Stati a fiscalità leggera. La stessa Clausing utilizza il condizionale perché le imprese trasferiscono le proprie sedi legali non solo per motivi tributari, ma anche per determinanti “ambientali” (giustizia, Pubblica amministrazione, infrastrutture, reti efficienti).

Nell’ultimo Doing Business della Banca Mondiale, ad esempio, l’Italia occupa il 58esimo posto – preceduta da Kosovo, Kenya, Romania, Cipro e Marocco – in calo di sette posizioni rispetto all’anno precedente e di ben dodici rispetto al 2018. Negli ultimi anni sembra avviato, dunque, un consolidato trend negativo. I maligni dicono che c’è una forte correlazione con la prise de pouvoir del Movimento Cinque Stelle. In effetti, lo stesso Doing Business chiarisce che le determinanti principali sono le inefficienze della giustizia e dell’amministrazione pubblica, unicamente alla scarsa digitalizzazione, a tenere le imprese straniere lontane dall’Italia. A torto od a ragione, dopo le ultime vicende a Palazzo dei Marescialli e dintorni, la stampa internazionale dipinge la giustizia italiana come non solo inefficiente ma anche particolaristica e pure corrotta.

Occupiamoci di correggere queste storture prima di tifare per una “minimun tax” ancora non proposta da nessuno.


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