La mafia è una realtà che si deve e si può vincere; oggi, però, occorre che ci poniamo una domanda: con l’alto tasso di dispersione scolastica nel sud, con una povertà educativa che rende i nostri ragazzi facile preda della mafia e della camorra, quale alternativa siamo in grado di dare loro?
Ogni anno, il 23 maggio, in concomitanza con l’anniversario della strage di Capaci, ritornano le iniziative legate alla Giornata della Legalità per ricordare le vittime della mafia, in particolare il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta, e l’amico e collega Paolo Borsellino, ucciso due mesi dopo, assieme alla scorta. Ricordare è certamente importante ma solo se il ricordo determina un cambiamento di rotta nelle nostre vite e nel nostro modo di pensare. Altrimenti è retorica.
La mafia è una realtà che si deve e si può vincere; oggi, però, occorre che ci poniamo una domanda: con l’alto tasso di dispersione scolastica nel sud, con una povertà educativa che rende i nostri ragazzi facile preda della mafia e della camorra, quale alternativa siamo in grado di dare loro? L’unica difesa possibile contro il dilagare della criminalità è la scuola, perché la guerra contro la mafia inizia con la garanzia del diritto all’istruzione: il libro strappa i picciotti alla mafia. La scuola, infatti, favorisce quella conoscenza che consente a tanti ragazzi, una volta divenuti adulti, di dedicare la propria vita alla legalità, di vivere una vita buona, per sé e per gli altri. Ma, se la scuola abdica al proprio dovere, vani saranno gli sforzi per contrastare il fenomeno delle mafie. Vane saranno le morti dei giudici Falcone e Borsellino e degli altri servitori dello Stato barbaramente uccisi.
Ancora una volta, allora, accanto ai giudici, vanno ricordati i docenti, il cui ruolo, davvero unico, va custodito, valorizzato, incentivato. Ammiro quei docenti coraggiosi e tenaci che ritengono che la cultura sia l’unica chance per far diventare bambini, adolescenti, giovani adulti di spessore, capaci di restare in piedi sul ring della vita e recuperare ogni giorno il senso di essere vivi. Quando i ragazzi si domanderanno “Che senso ha vivere?”, la risposta dipenderà molto dai maestri che hanno avuto. La cultura salva l’uomo. Da sempre.
Io per prima lo posso testimoniare. La mia vita, grazie alla maestra Renata Fonte, ha preso una nuova direzione e ancora oggi, nei momenti di sconforto, ripenso al suo esempio, al suo sacrificio. Era il 31 Marzo 1984, un tardo pomeriggio; avevo nove anni ed era terminato il doposcuola, in una buona scuola pubblica statale che i miei genitori avevano scelto per gli ottimi docenti e per le attività pomeridiane di qualità. Anni spensierati con bravi maestri, che sapevano condire lo studio e l’applicazione con attività divertenti. A me piaceva andare a scuola e ricordo l’intesa (nessuna sbavatura, nessun contrasto, certamente perché cautamente evitato nel rispetto delle parti) fra i miei genitori, i primi responsabili della mia educazione, e il maestro. Allora c’era il rispetto dei ruoli, considerati come responsabilità vissuta in prima persona piuttosto che come rivendicazione da ring per giustificare il proprio fallimento. Ritorno a quel pomeriggio, avevamo terminato i compiti e le maestre visibilmente stanche (i docenti lavorano non solo in classe, molto del lavoro è nei consigli di classe, collegi docenti, incontri con le famiglie e preparazione personale) erano sulla porta della classe ad attendere i nostri genitori. La maestra di turno in quei giorni era Renata Fonte, quel pomeriggio era stanca e molto raffreddata.
Io, bimba sensibile ma anche curiosa, ascoltavo il dialogo fra le maestre. Come è vero che i bambini ci guardano e i ragazzi assorbono da noi più con l’esempio che con mille regole! La collega le dice: ‘Sei davvero raffreddata, avrai anche la febbre! Quando arrivano i genitori, vai a casa!” – ho ripescato nella mia memoria il luogo, le parole esatte. Renata Fonte rispose: ‘Sì, avrò forse la febbre, ma oggi ho il Consiglio comunale: non posso mancare’”. Quelle parole chiare, semplici, forse anche un po’ ruvide risuonarono in me bambina come quel senso del dovere che porta a fare le cose bene, sino in fondo, senza sconti. Il giorno dopo risuonava in città e nella mia scuola, in modo lapidario, la notizia: “Hanno sparato a Renata Fonte”. Alcune classi andarono al funerale, la mia no. La mia maestra decise così e a me bimba, in fondo, andava bene la scelta. Ho così conservato il ricordo di una maestra che mi aveva insegnato che è bello vivere impegnandosi per un ideale, spendendo la vita a favore di qualcosa di grande. Renata Fonte, vittima di mafia: così fu decretato negli anni a seguire. Assessore alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, eletta nel 1982 nelle liste del PRI, prima donna nel 1982 ad assumere quel ruolo, Renata Fonte venne uccisa da due sicari con tre colpi di pistola, mentre ritornava a casa dopo una seduta del consiglio comunale. Durante il suo mandato, al fine di difendere l’area di Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia, promosse una modifica al piano regolatore; l’omicidio venne commesso pochi giorni prima dalla seduta nella quale si sarebbe decisa la modifica da lei proposta.
È con figure come questa che si onora il ricordo del giudice Falcone e delle altre vittime della mafia: ricordare significa attualizzare e far rivivere le azioni compiute per il bene degli altri. A pensarci bene, nulla è cambiato, dall’antichità ad oggi: Ettore, consapevole che sarà ucciso, abbandona la moglie, il figlio, il vecchio padre, per andare incontro al suo destino eroico. Il suo ricordo è caro a tutti, forse ancor più di quello del forte Achille, anche lui vittima del proprio destino. E tu, onore di pianti, Ettore, avrai, / ove fia santo e lagrimato il sangue / per la patria versato, e finchè il Sole / risplenderà su le sciagure umane. Il ricordo di chi si batte per un ideale di bene è eterno, perché l’uomo arricchisce la propria umanità e si fa promotore di un messaggio che valica i secoli.