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La partita del Quirinale e gli schemi di gioco possibili. La bussola di Ocone

Mancano ormai solo due mesi per entrare nel semestre bianco e da quel momento la partita del Colle sarà anche una partita politica, fra elezioni in scadenza naturale o anticipate a seconda delle scelte che verranno fatte. Una variabile questa non irrilevante. La rubrica di Corrado Ocone

Mancano ormai solo un paio di mesi all’inizio del semestre bianco. E sembra che, mai come questa volta, la partita del Quirinale si intrecci con quella politica in corso nel Paese.

Da questo punto di vista, pure la data del voto (scadenza naturale nel 2023 o elezioni anticipate un anno prima?) diventa una variabile non irrilevante. Prima di tutto, c’è da considerare un elemento non secondario: che sia per interesse, per mancanza di alternative o per capacità tutta e anche politica dell’uomo, Mario Draghi ha oggi fra le forze politiche un consenso quasi unanime. Che è poi quello che ci vorrebbe non per un capo del governo (eccezion fatta per “governi d’emergenza” come l’attuale) ma proprio per il Capo dello Stato che rappresenta la coesione e l’unità nazionale (proprio come un re, tanto che non pochi studiosi hanno definito la figura del Presidente della Repubblica che emerge dalla Costituzione come quella di un “re repubblicano”).

Il secondo elemento da tener presente è che, essendo per una parte i poteri del capo dello Stato (compresi quelli di moral suasion) un po’ “a fisarmonica”, negli ultimi anni, a causa della crisi strutturale del sistema politico e dei partiti, essi sono aumentati enormemente. Non è esagerato dire che esso viene visto oggi non come arbitro, ma parte in causa nel gioco. Che un Capo dello Stato non sia perciò eletto con i voti della parte opposta, diventa importante per una forza politica qualsiasi. In verità, gli schemi di gioco possibili nel nostro caso, considerata l’ampiezza della maggioranza necessaria all’elezione, sono sostanzialmente tre: o un’auspicabile accordo di tutte le forze politiche sul nome; oppure un presidente eletto da un centrosinistra compatto ma allargato a Forza Italia e centristi (più o meno la “maggioranza Ursula”); o infine un Capo dello Stato eletto da un centrodestra compatto allargato a renziani e volenterosi vari.

La prima soluzione è quella auspicabile sì, in astratto, ma che in concreto, da una parte, interromperebbe il lavoro di Draghi creando forse qualche problemino all’Italia, dall’altra, porterebbe immediatamente alle elezioni anticipate. Le quali, questo è evidente, indipendentemente dal minor numero di deputati eletti e dalla legge elettorale con cui lo saranno, vedrà al suo interno rapporti di forza del tutto nuovi e diversi rispetto a quelli disegnati dalle elezioni del marzo 2018. Per sapere quali i partiti hanno in mano lo strumento dei sondaggi, che però non sempre sono stati confermati in passato dalle urne. Senza dimenticare l’estrema fluidità degli elettori in questa epoca post-ideologica.

Detto in soldoni, in molti potrebbero decidere all’ultimo momento ove convogliare il proprio voto, o comunque non dire la verità alle società demoscopiche; altri, e ugualmente molti, potrebbero cambiare intenzione di voto anche completamente in base a semplici umori o percezioni del momento (che contano sempre più oggi delle appartenenze). Che si voti un anno prima o dopo non è perciò senza significato.

In questo quadro, a dir poco complesso, si stagliano i calcoli dei partiti. Giorgia Meloni, che ha il vento in poppa, potrebbe avere interesse a capitalizzare subito il risultato, e quindi in cuor suo forse spera in un Draghi subito al Quirinale e in elezioni subito dopo. Fra l’altro, Draghi, nell’incontro di ieri, le ha dato ascolto non poco, in un clima di cordialità e civile confronto fra il governo e l’opposizione (fra parentesi Draghi sta facendo non poco anche per far superare al nostro Paese l’anomalia di una “guerra civile permanente” fra le forze che porta alla delegittimazione morale dell’avversario). Per gli stessi motivi, Matteo Salvini potrebbe oggi forse preferire un voto ritardato, aspettando e sperando che il “fenomeno Giorgia” si sgonfi. Un gioco pericoloso però, come lui stesso sa, se la frenata di Fratelli d’Italia si ripercuotesse su tutto il centrodestra. Anche i grillini hanno interesse a votare il più tardi possibile, considerato che la più parte di loro in Parlamento difficilmente torneranno. Un’esigenza che però cozza con quella di Giuseppe Conte, che vorrebbe non solo evitare che il consenso alla sua persona scemasse con il passare dei mesi ma anche creare le condizioni per ritornare, dopo le elezioni, a Palazzo Chigi.

I rumors dicono che egli, complice il semestre bianco, voglia delegittimare Draghi e portare il Movimento all’opposizione per poi far votare gli italiani subito dopo l’elezione del Capo dello Stato, cioè sempre nel 2022. Un Movimento all’opposizione frenerebbe forse il suo declino, e Conte stesso potrebbe mettere molti suoi uomini nelle liste. Ma è un calcolo che non fa i conti con Draghi, con il Pd e che forse spaccherebbe ulteriormente gli stessi Cinque Stelle, con Di Maio che seguirebbe invece l’attuale presidente del Consiglio. Come finirà non è dato saperlo. Forse però all’Italia converrebbe sia un Draghi che porti a termine la legislatura sia un Draghi che, forte del suo consenso e della sua autorevolezza super partes, vigili dal Quirinale le forze politiche quando esse giustamente si riprenderanno il potere che ora hanno commissariato.

Una contraddizione che si può risolvere in un solo modo: chiedendo a gran voce, e ottenendola, una rielezione “a termine” di Mattarella (per rispettare anche le giuste esigenze di “riposo” manifestate dal capo dello Stato). Un po’ sul modello del Napolitano II, per intenderci. Se poi, in questo periodo i partiti mettessero pure mano, come chiede Marcello Pera, a una calibrata riforma costituzionale, si raggiungerebbe l’optimum.

Purtroppo, in politica non tutto ciò che sulla carta sembra razionale e perfetto, dritto come una barra, è anche necessariamente reale. E lo sapeva pure il buon Hegel, che quella coincidenza la poneva sul piano metafisico della storia non in quello empirico della politica. Che sia così è indubbio, che sia un bene o un male è appunto discorso filosofico. E perciò, in questa sede, lo lasciamo stare.


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