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Phisikk du role – Piccola rassegna della political correctness all’italiana

Che cos’è la nostra political correctness, se non la ripetizione fino allo sfinimento di parole che sembrano come un decollage di Mimmo Rotella, scrostate dal loro significato originario e offerte ad un pubblico distratto come una nenia inutile e necessaria? In America qualche segno di stanchezza viene registrato. In Italia le parole ipnotiche ancora sembrano prevalere. E guai a dissentire

La political correctness, tradotta con le parole “correttezza politica”, viene adottata dagli intellettuali liberal e radical nelle Università americane all’inizio degli anni ‘90 e procede nutrendosi letteralmente di forma più che di contenuti. L’idea che la sostiene, infatti, e che poi si fa pensiero politico, è di bandire dal lessico ordinario tutte le parole che possano apparire discriminatorie nei confronti delle minoranze (ad esempio i nomi di alcune funzioni esercitate dalle donne ma declinate solo al maschile), correggendo l’uso di lemmi che rechino un elemento potenzialmente offensivo (ad esempio zingaro, invece che rom). Idea commendevole, non c’è che dire, solo che nel pendolarismo emozionale della cultura americana che, quando decide di vietare il fumo giunge a criminalizzare il fumatore fino al ludibrio nella gabbia dei reietti, si rischiano sempre esplosioni incontrollate.
Infatti la foga della correctness a parole non solo ha toccato vette esilaranti, soprattutto con la costruzione degli arzigogoli lessicali utili a scansare le parole incriminate, salvo poi a tacciare di sessismo le parole indeclinabili al femminile, ma ha anche prodotto uno spostamento vistoso nel pensiero politico dei progressisti, dall’area dei diritti sociali, peraltro ancor più compressi nel biennio pandemico, a quella di una enfatizzazione di alcuni diritti civili. L’effetto (indesiderato?) è stato quello di concentrare l’attenzione su un universo molto parziale del pantheon valoriale progressista, senza dover fare altro se non evocare parole, concorrendo, così, a tenere basso il registro del conflitto sociale. Il che fa del lessico della political correctness un ospite appetibile dei media americani e dei loro tycoon.
Bene: questa modalità la politica italiana l’ha non solo importata, ma l’ha anche perfezionata allargandola alla moda del momento, ispirata come sempre dall’italico genio.
Se diamo un’occhiata, infatti, alle parole d’ordine che circolano in certi ambienti della politica nostrana, avremo cognizione di quanto il conformismo lessicale dettato da una certa interpretazione del politicamente corretto stia soffocando, sotto spesse coltri di retorica, il senso stesso di ciò che viene detto. Che cos’è la nostra political correctness, se non la ripetizione fino allo sfinimento di parole che sembrano come un decollage di Mimmo Rotella, scrostate dal loro significato originario e offerte ad un pubblico distratto come una nenia inutile e necessaria?
In questo modo persino le ricorrenze più cariche di valore, come la Festa della Repubblica, a furia di venire maneggiate in modo improprio e solo rituale, del tutto deprivate della loro profondità, finiscono per stingersi in un colore indefinito. Vogliamo fare una piccola rassegna? Partendo dalle lenzuolate di “andrà tutto bene” ( e poi, purtroppo, così bene non andò) di valore atropopaico di cui la politica si appropriò prontamente per lanciare benedizioni rassicuranti dai tiggi’, fino alle giaculatorie in cui talvolta inciampa qualche leader quando, per dire qualcosa di sinistra, mette in fila tutto l’armamentario reputato idoneo all’uopo, dallo ius soli al mattarellum, che poi ci possono pure stare, ma ci sono tempi e modi.
Insomma il concetto è semplice: il ricorso continuo alle parole politicamente corrette svolge una funzione ipnotica che provoca due effetti. Da un lato anestetizza i concetti lasciando fluttuare nell’aria parole separate dai significati, evocati solo per accenno. Dall’altro distolgono dal cuore vero dei problemi: spara alta l’ideologia della correctness e vedrai che tutti ti vengono dietro. In America qualche segno di stanchezza viene registrato in modo clamoroso: 153 intellettuali progressisti (tra cui Chomsky, Rushdie, J.K. Rowling e Atwood) hanno firmato una lettera contro la cancel culture, vale a dire quel conformismo meccanico imposto dall’ideologia del politicamente corretto che condanna e isola chi esprime posizioni diverse.
In Italia le parole ipnotiche ancora sembrano prevalere. E guai a dissentire. La fatwa è sempre dietro l’angolo.

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