Il caso dell’anonimo report pro Cina sullo Xinjiang sottoscritto da Grillo e dal senatore pentastellato Petrocelli, pubblicato con la collaborazione dell’Eurispes, riapre il dibattito sui finanziamenti ricevuti dai centri studi italiani e la necessità di vigilare. Il commento di Stefano Pelaggi, docente presso l’Università di Roma La Sapienza
Il report “Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace” pubblicato dal Centro Studi Eurasia Mediterraneo (CeSEM) in collaborazione con l’Istituto Diplomatico Internazionale (IDI) e il Laboratorio Brics dell’Eurispes ha lasciato interdetti tutti gli addetti ai lavori, i giornalisti e gli analisti della regione. Si tratta di un lavoro collettivo, ma nessuno degli autori ha firmato il report mentre le adesioni al documento sono oggi 19.
Giulia Pompili sul Foglio descrive accuratamente i profili dei firmatari del progetto e individua uno degli autori: Fabio Massimo Parenti. Nel report, sempre secondo la Pompili, vengono mostrate alcune foto scattate dagli autori e alcune di queste foto erano apparse proprio sul profilo Facebook di Parenti nel 21 maggio scorso. Lo stesso nel post, ora cancellato, dichiara di aver scattato quelle foto nel 2019.
Uno dei punti più interessanti è quello dei firmatari. Il nome più famoso è quello di Beppe Grillo, ma ci sono anche Marco Ricceri, segretario generale dell’Eurispes, e Thomas Fazi, figlio dell’editore Elido Fazi e da sempre vicino alle posizioni del Movimento 5 stelle. L’idea dell’adesione a un progetto di ricerca è quantomeno bizzarra, un report si basa su osservazioni supportate da fonti, testimonianze dirette o documenti. Si tratta di un processo scientifico, che con i dovuti limiti delle scienze sociali, ambisce a una metodologia nella rappresentazione dei fatti. I progetti di ricerca arrivano talvolta a conclusioni diametralmente opposte, ma ognuno di questi processi deve poter essere analizzato nei singoli passaggi. Ossia scomposto in una simulazione, talvolta impossibile, delle scienze esatte. Sono concetti ben noti a qualunque studente che si cimenta con una tesi al termine della laurea triennale.
Le adesioni solitamente le troviamo in fondo ai manifesti, alle lettere aperte e ai documenti programmatici. Il report sullo Xinjiang ha tutta l’impressione di essere un documento programmatico, una sorta di compendio per alimentare un fronte di scetticismo di fronte alle crescenti preoccupazione globali, europee e italiani rispetto alla condizione degli uiguri nella Repubblica popolare cinese.
Il tema centrale del documento è la complessità della questione Xinjiang e l’incapacità dell’Occidente di comprendere la Cina. “Complessità” è ormai l’immancabile mantra che troviamo in ogni libro e articolo che si occupa di Cina. I “5.000 anni di civiltà” rappresentano per qualsiasi commentatore un ostacolo insormontabile. Tra una citazione di Confucio, lo yin e lo yang, un’apocrifa citazione di Napoleone che preconizzava la temibile accesa cinese, le diverse interpretazioni di un ideogramma e “I Ching” ogni discorso sulla Cina si trasforma in un viaggio pindarico in cui veniamo sballottolati in una dimensione oscura.
Una dinamica generata sia dalla rappresentazione della Cina lasciata per troppi decenni esclusivamente in mano ai sinologi – la lingua come unica chiave di accesso alla conoscenza della realtà cinese – sia alla cronica mancanza di informazioni negli scorsi decenni dalla regione. È vero che sappiamo troppo poco di questo nuovo attore che è inevitabilmente destinato a sconvolgere gli equilibri economici e strategici del mondo. Evidentemente ogni nazione è complessa a modo suo, ogni cultura ha le sue specificità e peculiarità, ogni storia è ricca di eventi talvolta incomprensibili e le contraddizioni fanno parte del minimo comune denominatore di tutte le società. Questa complessità non ha impedito ai giornalisti di raccontare il presente e agli storici di tracciare il passato.
La Repubblica popolare cinese opera all’interno del tracciato del sistema internazionale e chiaramente gli elementi che definiscono questo sistema sono universali. Il concetto di diritti umani è, per definizione, universale e non può essere declinato con “caratteristiche cinesi”.
Il report, o meglio il manifesto, ambisce, nelle parole degli anonimi autori, a “fare chiarezza su un tema – quello della situazione sociale e politica nella Xinjiang – molto più vasto e complesso delle banali insinuazioni della stampa generalista occidentale, che però, confezionato e presentato all’interno di una cornice narrativa sensazionalistica, rischia di generare gravi tensioni diplomatiche, pregiudicare seriamente consolidate piattaforme di cooperazione bilaterale o multilaterale e, non ultimo, fornire a formazioni settarie, violente ed eversive una pericolosissima legittimazione politica o morale”.
Quindi oltre alla complessità c’è il sensazionalismo della stampa generalista occidentale ma anche la possibilità di compromettere le relazioni diplomatiche con la Cina e mettere a rischio gli scambi economici. Il manifesto spiega la questione uigura, seguendo la prospettiva di Pechino, e in generale il report è una traduzione di articoli già pubblicati da gruppi di ricerca pro Pechino negli scorsi anni. Il terrorismo uiguro è una minaccia seria per la Cina ma anche la difesa della sovranità – e la lotta contro ogni tendenza autonomista – viene messa allo stesso livello del fondamentalismo radicale musulmano.
La parte più interessante è quella relativa al differente approccio cinese rispetto alla lotta contro il terrorismo: “il legislatore cinese, dunque, non contempla semplicemente la prevenzione dell’atto criminoso in quanto tale, ma una sorta di prevenzione preventiva, o pre-prevenzione”. La pre-prevenzione o la prevenzione preventiva è ovviamente un argomento difficile da accettare per i canoni della società contemporanea, soprattutto alla luce dell’oggetto di questa azione. Una comunità etnica, culturale e religiosa è il destinatario di questa azione di prevenzione preventiva. Un approccio che viene candidamente spiegato poche righe dopo “chiaramente, l’approccio è molto diverso da quello adottato nei Paesi occidentali, che limitano all’azione investigativa l’impegno sulla componente ideologica del terrorismo, senza alcuna pretesa di incidere moralmente e socialmente su gruppi e individui aderenti ad ideologie distruttive. Al contrario, la Cina intende agire eticamente e culturalmente sulla società per raggiungere una piena armonia tra gruppi etnici, fasce sociali e corpi intermedi entro il secondo traguardo centenario (…)”. Il testo prosegue e diventa una citazione diretta da “Dottrina del socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” scritto dallo stesso Xi Jinping.
La possibilità di agire etnicamente e culturalmente sulla società per raggiungere un’armonia tra gruppi etnici suona come un percorso di riconversione culturale di una popolazione. Esattamente l’accusa che viene mossa a Pechino: deportazioni, disarticolazione sistematica della società e veri e propri campi di prigionia sono stati ampiamente documentati da ricercatori e giornalisti. Il manifesto sostiene che gli autori di queste denunce non hanno mai messo piede nello Xinjiang e quindi le loro ricostruzioni sono prove di fondamento. L’accesso alla regione è proibito per tutti i giornalisti e gli unici a poter visitare lo Xinjiang sono i partecipanti a viaggi organizzati dal Partito comunista cinese, con percorsi definiti e un monitoraggio costante di ogni interazione.
Il manifesto prosegue con il concetto di “China bashing”, espressione ricorrente della diplomazia cinese. Si tratta di accuse di relativismo culturale e veri e propri atti di razzismo da parte di attori occidentali nei confronti della Cina. Il tema sotteso è che la Repubblica popolare cinese adotta delle strategie consone alla propria storia e cultura, e alle proprie esigenze, e le prospettive degli attori esterni sono ingerenze negli affari interni cinesi. Dimenticando il carattere universale dei diritti umani.
La posizione italiana rispetto alla persecuzione degli uiguri nello Xinjiang è molto chiara. Il Parlamento italiano ha approvato pochi giorni fa all’unanimità una risoluzione che condanna la “repressione grave, sistematica e istituzionalizzata da parte della Repubblica popolare cinese nei confronti della minoranza uigura di religione musulmana nello Xinjiang”.
Il manifesto è l’ulteriore azione della diplomazia cinese in Italia, la questione preoccupante riguarda i soggetti coinvolti. Vito Petrocelli, senatore del Movimento 5 stelle e presidente della commissione Affari esteri del Senato, è tra i firmatari del manifesto. Uno dei più importanti centri di ricerca italiani – Eurispes – ha collaborato al documento e il segretario generale Marco Riccieri è tra i firmatari del report/manifesto.
L’Eurispes è un ente privato che può scegliere di sostenere qualsiasi iniziativa, tuttavia l’idea che l’istituto che viene costantemente incaricato da istituzioni e dalle amministrazioni locali di descrivere lo stato della società italiana possa scegliere una prospettiva così distante dalla posizione unanimemente decisa nelle sedi preposte appare singolare. Soprattutto alla luce della carenza di metodo scientifico nella stesura del manifesto. Non si tratta poi di firma apposta in maniera frettolosa, il manifesto sullo Xinjiang è stato pubblicato sul sito dell’Eurispes, promosso e curato dal Laboratorio Brics dello stesso Centro Studi e firmato dal segretario generale. Una vera e propria orgogliosa adesione ai contenuti del manifesto, che assume una dimensione ulteriore alla luce della mancanza dei nomi degli autori.
Negli anni l’opinione pubblica si è abituata alle posizioni politicamente scorrette, non allineate e talvolta deliranti di parte del Movimento 5 stelle ma la pubblicazione del manifesto mette in luce la necessità di rivedere la struttura degli istituti di ricerca e dei centri studi nel nostro Paese.
La circostanza di un importante centro di ricerca, che attraverso fondi pubblici racconta il presente dell’Italia con l’ambizione di disegnare una traiettoria per il futuro del nostro Paese, possa sostenere un documento programmatico basato su presupposti scientifici risibili e posizioni in netto contrasto con la direzione decisa dalle istituzioni è un fatto grave che necessita una riflessione sulla modalità di finanziamento degli istituti di ricerca.
La soluzione adottata da alcuni Paesi in cui la proiezione cinese è chiaramente avvertita come una minaccia, per esempio l’Australia ha alimentato reazioni contrastanti. L’ovvio pericolo è quello di generare una situazione parzialmente simile a quella che la Repubblica popolare cinese ha avviato nello Xinjiang. Monitorare e controllare i finanziamenti cinesi verso università, centri di ricerca e think tank italiani equivale a sostenere una “prevenzione preventiva” nei confronti di una singola nazione.
Basterebbe una legge per chiedere agli istituti di ricerca, ai think tank e ai centri studi di comunicare i finanziamenti ricevuti da attori statuali e agenzie collegate a Stati stranieri.