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Phisikk du role – Riforma del fisco? Un evergreen

Serve una riforma induttrice di virtù. Perché, l’abbiamo assodato, già il pagamento delle tasse di per sé non è un gesto che si compie con entusiasmo. Se poi non ci mettiamo un incentivo è proprio finita. La rubrica di Pino Pisicchio

C’è nel mondo qualche popolo, o piccola etnia, o raggruppamento sociale anche minimo che si accosti all’erario con la felicità piena di partecipare ad un esborso-grande, medio, piccolo che sia- a favore della collettività? Ne dubito fortemente.

Nessuno, neanche lo scandinavo più rigoroso, icona del cittadino modello in materia di tasse, versa il suo obolo con leggerezza. Non è questione di indole o di costumanza, ma di psicologia spicciola: ogni essere umano, messo davanti alla scelta se gli faccia più dispiacere vedersi sottrarre cento euro che ha già in tasca piuttosto che rinunciare ai soldoni che arriveranno ma che fisicamente ancora non ci sono, non avrà dubbi nel dichiarare la sua massima sofferenza per il distacco da ciò che è già suo.

Per questo le tasse sono istintivamente viste male, come un prelievo a tradimento di ciò che è nostro e ci viene sottratto con la forza dall’autorità statale, che le esige come pagamento delle sue prestazioni. Intendiamoci: quando le prestazioni sono efficienti, non è che il dolore del distacco diminuisca, ma, almeno, il contribuente resta con meno argomenti da agitare col suo ius murmurandi. Ma se, poi, la qualità dei servizi è pure scarsa, allora veramente è dura da mandare giù: pagare la Tari e vedere le strade inondate d’immondizia è un insulto decisamente insopportabile. E forse anche a ragione.

Insomma, appena può, chi può a tutte le latitudini fa emigrare i suoi soldi o li nasconde. Molto interessante è la classifica dei primi cinque paesi europei per esportazione di danari all’estero: al primo posto l’insospettabile Germania, con 331 miliardi di euro, pari al 13% del PIL; al secondo i cugini (loro) francesi, con 288 mld, pari al 10%; al terzo gli ex Ue inglesi, con 218 mld, pari all’8% della loro ricchezza, percentuale simile a quella italiana, (8,1%), che si colloca al quarto posto (141 mld verso i paradisi). Dunque, come in quella telenovela degli anni ’80, in tutta Europa i ricchi, appena possibile, piangono e per consolarsi mettono i soldi in valigia e partono.

Allora, assodato che il sentimento umano è pochissimo disposto a fare sorrisetti empatici alle Agenzie delle Entrate, diventa interessante capire come si affronta il problema per recuperare il carburante necessario a far funzionare lo Stato. C’è una parte di cittadini celebrati come virtuosi perché non c’è prova contraria. Sono i funzionari pubblici e tutti i lavoratori che ricevono una busta-paga, virtuosi per necessità perché il passaggio di danari è documentato.

Si tratta del 13,07% della popolazione, circa 8,2 milioni di contribuenti, sui cui fragili omeri pesa quasi il 60% dell’imposizione fiscale. Ancora: ogni anno a partire dal 2016 le autorità fiscali italiane ci danno cifre sull’evasione. Secondo l’ultimo rapporto completo, non recentissimo, mancherebbero all’appello non meno di 108 miliardi di euro: più della metà del recovery found. L’effetto è devastante perché non solo l’imposizione fiscale cresce in modo esponenziale (al 42,4% del Pil), ma anche perché va a colpire solo una parte degli obbligati, facendo saltare ogni principio di solidarietà e condivisione degli oneri scolpiti in Costituzione. E così non ce la si fa. Nel mondo si affronta il problema con vari strumenti.

C’è chi come i tedeschi e gli americani spingono il pedale sull’inasprimento delle pene e sullo spauracchio della carcerazione. C’è chi (16 paesi europei) fa ricorso al ludibrio universale, con la pubblicazione dei nomi dei reprobi – il cosidetto name shame– nel presupposto che la cosa rovini la reputazione della persona esposta (in Italia funzionerebbe?). C’è chi, proposta ripescata di quanto in quanto anche da ambienti politici italiani, farebbe volentieri ricorso alla imposta aggiuntiva sul patrimonio, che, lanciata così, ha solo l’effetto di far volare via, oltre le frontiere nazionali, valige di danari. E poi c’è il comportamento virtuoso attraverso il contrasto d’interessi che può far ricorso all’aiuto delle tecnologie digitali. Uso di carte di credito, certo, ma, soprattutto, convergenza di tecnologie per promuovere benefici al contribuente, modello farmacia, dove ogni acquisto finisce nel castelletto del 19% scaricabile dal cittadino.

La riforma fiscale, evergeen dei governi italiani giustamente rilanciata da Draghi, deve trovare la sua bussola nella trasparenza, nella semplificazione, nel minor aggravio. Nell’abbattimento di un feticcio malvagio, un fisco-orco che digrigna i denti nei confronti del cittadino sulle cui spalle grava l’onere di dimostrare che non è un membro dei clan colombiani in missione estera.

La via è una sola: una riforma in grado di indurre al comportamento virtuoso attraverso meccanismi di “contrasto d’interessi”, capace di consentire al contribuente la deduzione delle spese impegnate per il ménage familiare, avendone non solo benefici fiscali, ma anche altre forme di recupero, per esempio previdenziale (in questo caso parleremo di “accordo di interessi”). Una riforma così è induttrice di virtù se ogni transazione, dalla più piccola alla più grande, diventa deducibile. In questo modo si incoraggia una catena di comportamenti ispirati da una onestà necessaria (la deducibilità è il motore della virtù), piuttosto che perpetuare il regime inquisitorio (ma non premiale) del nostro ordinamento fiscale. Perché, l’abbiamo assodato, già il pagamento delle tasse di per sé non è un gesto che si compie con entusiasmo. Se poi non ci mettiamo un incentivo è proprio finita.


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