Giuseppe Pennisi analizza la legge Zan da due punti di vista: costi-benefici finanziari per la Pubblica amministrazione e per il bilancio dello Stato, e costi-benefici per la collettività Italia
Non sta ad un semplice chroniqueur che ha passato quaranta anni insegnando la “triste scienza” (ossia la disciplina economica) e che, al pari di Voltaire, “è intollerante solo con l’intolleranza”, discettare sugli altissimi principi di cui si discute in questi giorni a proposito di quella proposta di legge che viene chiamata “Legge Zan”. Oltre che altissimi sono complessi dato che, per la prima volta dal lontano 1929, lo Stato Vaticano è intervenuto con una “nota verbale” di cui non solo il colto e l’inclito ma tutti i lettori di giornali conoscono i contenuti. Si entra nelle alte sfere del diritto internazionale, del diritto ecclesiastico e di altre discipline in cui i chroniqueur di vicende economiche si perdono come in mare aperto.
Il baccano è tale, però, che vale la pena fare un’analisi costi benefici della cosiddetta “Legge Zan”. Senza dubbio, è stata fatta dall’unità per l’analisi dell’impatto della regolazione della presidenza del Consiglio; altrimenti detta unità che ci sta a fare nei dintorni di Palazzo Chigi? Se è stata fatta è bene che venga pubblicata. Così come vengono pubblicate le “note verbali” tra Stato e Stato. Se non è stata fatta, è bene che ci si affretti a farla.
Si possono fornire alcuni suggerimenti. Tra i costi diretti alla Pubblica amministrazione ci sono 4 milioni di euro annui che verrebbero stanziati dallo Stato e gestiti “direttamente” dalle associazioni Lgbti (acronimo ormai entrato nell’uso comune). Difficile capire perché dette associazioni debbano gestire “direttamente” tali fondi e non se ne debbano dare fondi analoghi perché vengano gestiti ”direttamente” dalle associazioni, ad esempio, di palla a nuoto o dei cultori di viola da gamba. In un momento, in cui il Piano nazionale di ripresa e resilienza impone a tutti riforme che implicano sacrifici è arduo capire perché più del 90% degli italiani che non sono Lgbti debbano sussidiarie le associazioni Lgbti (stimati in meno del 10% dei connazionali) senza mettere bocca su cosa dette associazioni fanno con i soldi di tutti.
Questa è solo una prima voce di costo alla Pubblica amministrazione. La più seria, ma di facile quantizzazione, si evince dalla lettura del testo: è confuso e può dare adito a molteplici interpretazioni. Una manna per avvocati ma un costo per la Pubblica amministrazione che si troverà alla prese con migliaia di vertenze. È già nell’aria una serie di procedimenti addirittura penali che le associazioni Lgbti (forse con la prima erogazione dei sussidi statali prevista da quella che sarebbe la nuova normativa) intenterebbe nei confronti delle università cattoliche perché insegnano corsi di bioetica che sarebbero contrari alla legge. Si sussurra di vertenze nei confronti degli oratori perché il catechismo della Chiesa cattolica “discriminerebbe” nei confronti di chi è Lgbti.
Da questa analisi costi-benefici finanziari, dal punto di vista della Pubblica amministrazione e del bilancio dello Stato, si potrebbe agevolmente passare a quella dei costi-benefici dal punto di vista della collettività Italia. Il metodo più semplice è quello seguito molti, molti anni fa dalla Repubblica di Singapore per convincere l’arcigna Banca mondiale su riforme per ridurre numero e tempi delle vertenze giudiziarie. Probabilmente, la legge Zan non ne uscirebbe bene. Ove si dimostrasse – ma dove sono i dati? – che l’Italia è così intollerante da trattare i Lgbti molto peggio di altre categorie, si potrebbe applicare il “maximin” di John Rawls, ossia massimizzare i benefici di chi sta peggio. È un’analisi quantitativa non facile. Aspetto che i sostenitori della “legge Zan”, la presentino per una discussione pubblica.