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La sfida dei Bric

Sono passati appena nove anni da quando gli analisti della banca d’affari Goldman Sachs coniarono l’acronimo Bric. Fu uno spunto creativo ed efficace per disegnare un trend oggi pienamente riscontrabile: entro il 2050, l’area dei Paesi emergenti – Brasile, Russia, Cina e India – avrebbe scalzato il vecchio circolo del G7 in quanto a ricchezza prodotta e a capacità di innovazione. Un modo sintetico per dire che gli equilibri del mondo cominciavano a mutare in maniera irreversibile, determinando uno spostamento epocale di pesi geopolitici dal vecchio ordine mondiale a nuovi centri di gravità. I nove anni che ci separano da quella felice intuizione sono trascorsi con rapidità inaudita.
Ed oggi ci troviamo già a ragionare su uno scenario di riferimento che presenta cambiamenti apprezzabili rispetto ad allora. La cornice rimane la stessa: assistiamo alla fine del mondo dell’unipolarismo necessario americano, seguito al crollo dell’Impero sovietico, e ad una incerta fase di transizione dalla quale uscirà un mondo con diversi poli di potere, ma non per questo più ordinato o pacifico. È già tempo di bilanci, quindi, nel mondo che emerge. È già possibile, cioè, valutare la solidità e la consistenza delle ambizioni dei nuovi attori che disegnano la mappa geopolitica del XXI secolo. In primo luogo va specificato che, se nel 2001 si poteva parlare di un’area del pianeta in emersione, oggi dobbiamo confrontarci con una compiuta realtà. Il mondo nuovo è fatto da attori che crescono ad un ritmo costante del Pil superiore al 5%, che allargano il loro raggio d’interesse strategico, che hanno voglia di consumare e di incontrare la modernità. Pur tuttavia, si compirebbe un errore nel vedere tali Paesi come un unico circolo compatto, pronto a scalzare il vecchio ordine mondiale. I protagonisti di questa ascesa sono accomunati dall’obiettivo di assicurarsi un posto d’onore al tavolo che conta. Ma vivono di profonde contraddizioni e limiti che solo il tempo ci consentirà di mettere nella giusta prospettiva storica e politica.
 
Non è un caso, ad esempio, che sempre più spesso nelle analisi strategiche internazionali ci si riferisca a questa parte del pianeta col nuovo acronimo di Basic – Brasile, Sudafrica, India, Cina. La Russia sembra cioè essere scomparsa temporaneamente dal radar dello sviluppo globale, dimostrando di essere ancora alla ricerca di un’identità post-sovietica. Il Paese conosce un indubbio successo economico, ma l’assenza di liberalizzazioni, una eccessiva concentrazione sulla monocoltura energetica e un bilancio demografico assai preoccupante, ne fanno un gigante dai piedi d’argilla, destinato probabilmente ad affidarsi al traino di potenze ben più solide. Analoghe considerazioni valgono però anche per gli altri protagonisti. Il caso del Brasile è emblematico in tal senso: con un dinamismo economico impressionante e l’assenza di competitor geopolitici nel Cono Sud – dopo la crisi che ha mortificato le ambizioni argentine – il Brasile deve fare però i conti con un tessuto sociale troppo sfilacciato, caratterizzato da eccessive concentrazioni di ricchezza a fronte di un’elevata sperequazione ed una fragilità determinata dall’ineludibile politica di rivalutazione del tasso di cambio del real, il cui valore consente oggi a Brasilia di guadagnare ricche somme dalle esportazioni. Se la futura leadership brasiliana sarà all’altezza della sfida è questione che solo tra qualche tempo si potrà valutare.
 
L’India ha dalla sua parte il peso che spetta alla più popolosa democrazia del pianeta. Un colosso economico specializzato in innovazione e Ict, con un dinamismo geopolitico e militare estremamente rilevante per l’intero continente asiatico. Come la Cina, l’India avrà bisogno di irrobustire la propria struttura sociale, che vive di pesanti discrasie e di attribuirsi un’agenda geopolitica coerente con il proprio rango. La Cina, erroneamente e troppo a lungo associata al vicino-competitor indiano, ha già disegnato un raggio geopolitico di riferimento, che la porta a dover consolidare innanzitutto il proprio sviluppo interno, così come stabilito dal piano quinquennale approvato dal Partito comunista di recente, volto a ridurre il gap drammatico tra città e campagne, per poi riassumere un ruolo egemone nell’area di riferimento del Pacifico, dove Pechino vorrà affermarsi sempre più come potenza navale. Il successo cinese nell’ordine mondiale che va costruendosi è senz’altro il più clamoroso. Non solo per i numeri, ma anche per la capacità cinese di attrarre investimenti, talenti, opportunità, per la sua capacità di muovere le leve geoeconomiche e trasformare i successi del business in capitalizzazione geopolitica. Chi ha spesso parlato di “Cindia” farà meglio a ricredersi, così come chi ha inteso vedere nel G2 la nuova formula dello sviluppo globale. Stati Uniti e Cina sono oggi due alleati necessari. La loro doppia dipendenza, per la quale l’enorme debito pubblico americano è sostenuto dal credito cinese, fa sì che si parli di matrimonio di interesse. Ma la convivenza nasconde profondi dissapori, legati, ad esempio alla mancata rivalutazione del renmimbi, il braccio finanziario globale del successo di Pechino, o il supporto cinese al controverso programma nucleare iraniano e a quello pachistano. I vertici del Partito comunista stanno peraltro già valutando gli effetti di una demografia svantaggiosa, che renderà a breve insostenibile la formula “4-2-1” (un figlio che si occupa di due genitori e di quattro nonni) e che vede l’impressionante cavalcata di un’intera generazione di baby-boomer cinesi verso la pensione, con costi enormi per il bilancio dello Stato di qui a qualche anno. Per adesso i due interlocutori si parlano e si osservano. Ma per quanto ancora? Washington spera nel possibile revival di una ex potenza globale, il Giappone, oggi logorato dalla crisi finanziaria, ma che un giorno potrebbe tornare ad assumere il ruolo di contrappeso geopolitico alla Tigre cinese.
 
C’è poi, nella formula sintetica dei Basic, il caso eclatante del Sud Africa. Un Paese in forte espansione e, di fatto, unica potenza di rango in un Continente africano ancora flagellato da crisi di varia natura. Pur tuttavia, se una scommessa strategica si può fare, essa risiede nella capacità africana, nel prossimo ventennio, di essere protagonista di un boom economico e demografico senza precedenti. Il Sud Africa è ben posizionato in questa prospettiva e potrà essere il collettore di energie positive per il tanto atteso riscatto del Continente nero. Per adesso, il Paese rientra a pieno titolo in quello che il politologo americano di origini indiane Parag Khanna ha opportunamente chiamato “il Secondo mondo”, ovvero uno spazio geopolitico fluido (al quale appartengono anche attori come Messico, Indonesia, Turchia, Egitto) e che potrebbe a breve emergere come perno geoeconomico regionale, oppure ritornare nell’alveo dei Paesi del “vorrei ma non posso”.
È da sottolineare come tali attori si rendano protagonisti, con una formula variabile, di alleanze più o meno strutturali sui grandi capitoli dello sviluppo globale. È il caso dell’alleanza definita Ibsa (India, Brasile, Sud Africa) che ha fatto saltare il tavolo di un possibile accordo a Copenhagen sul cambiamento climatico. Ciascun attore, insomma, gioca una partita solitaria, individuando alleanze di comodo su capitoli strategici prioritari. Quale forma avrà il pianeta di qui a un decennio e se esso sarà più o meno instabile potremo valutarlo solo tra qualche tempo. Da subito, però, l’ascesa dei Basic ci impone due riflessioni: la prima, e più rilevante, sulla necessità di superare l’architettura di sviluppo definita a Bretton Woods attraverso un nuovo sistema di regole che dia forma ad una governance adatta alle sfide del XXI secolo; la seconda è la desolante assenza, in uno scenario in così rapida evoluzione, dell’Europa. Siamo ancora in tempo perché il destino di una marginalizzazione dell’Ue dagli affari del pianeta non diventi una sconfortante realtà. Alle classi dirigenti nostrane è richiesta però capacità di analisi e una buona dose di coraggio.
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