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La pandemia finisce, l’infodemia no. Una lezione dalla Nato

Di Federico Berger

Notizie false, manipolate, costruite ad hoc. La pandemia forse si avvia alla conclusione, l’infodemia che ha generato no. Oltre a un piano di ripresa economica, serve un piano di resilienza contro le fake news fabbricate dagli Stati autoritari. Ecco cosa insegna la Nato. Il commento di Federico Berger, analista della Nato Defence College Foundation

È la mattina del 21 gennaio del 1814, quando la città di Londra viene svegliata da un manipolo di presunti soldati francesi che distribuiscono volantini con sopra stampato un messaggio sconvolgente: Napoleone Bonaparte è morto, ucciso dai cosacchi, e la pace in Europa sarà immediata e certa.

Non c’è bisogno di dire che Napoleone è sano e salvo. Ma mentre il falso rumour si diffonde tra i londinesi, un gruppo di persone collegate alla fonte della notizia fa in tempo ad operare la vendita in blocco di numerosi titoli di Stato inglesi, il cui valore era appena schizzato alle stelle, per un totale di più di 1 milione di pounds.

Ancora oggi, la Great Stock Exchange Fraud del 1814 testimonia come una campagna di disinformazione finemente orchestrata possa proliferare in un determinato contesto (le estenuanti guerre napoleoniche, durate ben 12 anni), con il potenziale non solo di influenzare l’opinione pubblica e orientare le decisioni, ma anche di porre rischi concreti e arrecare danni tangibili.

Ai giorni nostri non sono necessari finti militari francesi e volantini per condurre information operations che abbiamo un impatto ad ampio raggio. Se con i media broadcast un singolo messaggio poteva essere trasmesso anche a un milione di persone, nella Information Age le comunicazioni via digitale consentono virtualmente a un milione di messaggi di raggiungere una singola persona ognuno, trasmessi attraverso tecnologie informatiche come siti web, blog e social media.

L’ecosistema digitale offre ad attori senza scrupoli l’ambiente ideale per portare avanti operazioni di influenza microtargettizzate, interferenze elettorali e vere e proprie campagne di disinformazione, nel tentativo di esacerbare le divisioni tra le democrazie occidentali e minare la credibilità della NATO, dell’Unione Europea e di altre organizzazioni internazionali.

Dalla prospettiva dell’Alleanza Nord Atlantica, sono tre i diversi livelli sui quali disinformation (la diffusione intenzionale di false informazioni con intento doloso) e misinformation (contenuti falsi o manipolati condivisi in buona fede) possono causare danni consistenti.

In primis, il livello dell’Alleanza. Come illustrato da Jakub Kalensky nel suo contributo al Dossier Game Changers 2020 della NATO Foundation, gli avversari nel cyberspazio informativo della NATO, come la Russia e l’Iran, stanno adattando prontamente le loro attività in relazione al contesto internazionale in continua mutazione, sfruttando alcune linee di faglia per logorare la fiducia nei confronti dell’Organizzazione.

Le recenti campagne di disinformazione condotte in coordinazione contro l’Alleanza nei Paesi baltici e in Polonia (inclusa l’operazione di lungo corso denominata Ghostwriter) sono solo tra gli ultimi e più visibili esempi del fenomeno.

In un articolo di Daniel Sunter viene ricordato come, fin dal 2014, i Balcani occidentali siano via via diventati uno dei teatri più vivi per le narrative anti-NATO e anti-Occidente, diffuse soprattutto in Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia. Guardando poi ai sondaggi pubblicati nel report annuale del Segretario Generale Stoltenberg per il 2020 (vedi grafici), è curioso notare come il supporto non stellare dei montenegrini nei confronti del Patto Atlantico (il dato più basso registrato tra tutti gli Alleati) offra precondizioni e contesto ideali per questo tipo di influenze.

In secundis, la sfera domestica degli Alleati. Su piattaforme digitali e social media, gli individui radicalizzati si riuniscono in gruppi marginali e violenti, imperniati attorno a sentimenti antidemocratici, teorie del complotto e ideologie estremiste e infiammati poi da narrative polarizzanti e disinformazione.

La rivolta di Capitol Hill rappresenta un esempio netto di come retoriche divisive strutturate e reiterate possano portare a gravi conseguenze per le istituzioni democratiche, la stabilità e la sicurezza nazionale.

Terzo e ultimo punto, la società civile. L’infodemia legata alla crisi sanitaria del COVID-19 non si limita solo a false attribuzioni di responsabilità o speculazioni politiche. Uno studio pubblicato dall’American Journal of Tropical Medicine and Hygiene e ripreso dalla BBC, a livello globale nei primi tre mesi del 2020 più di 800 persone potrebbero essere decedute e circa 5800 sono state ricoverate ospedale come risultato di misinformation medica consumata sui social media.

Nel corso degli anni è stato anche scientificamente comprovato come la diffusione di informazioni false cresca esponenzialmente in concomitanza con situazioni di crisi e disastri naturali. Questo porta a un acuirsi di ansia e paura nella popolazione civile, ostacolando le operazioni di crisis management operato da governi o istituzioni come lo Euro–Atlantic Disaster Response Coordination Centre della NATO.

I problemi pervasivi e stratificati che derivano dalla diffusione di informazioni false volontarie e non necessitano quindi di risposte articolate su diversi fronti.

Mentre l’Alleanza sta dedicando grandi sforzi per assicurare al suo pubblico di riferimento informazioni chiare ed efficaci, basate su fatti verificabili, dovrebbe anche sforzarsi di studiare, analizzare, e cercare di comprendere la target audience dei propri avversari.

Fare il punto di quali siano i gruppi sociali più propensi ad ascoltare narrative tossiche, quali i loro valori, quali gli interessi in gioco, e quale sia la loro visione dell’ordine sociale potrebbe fornire una preziosa chiave di lettura per tentare di avvicinarsi a questi pubblici. Come direbbe il dottor Frank Luntz, mago americano dei sondaggi, “Non è ciò che dici, ma ciò che la gente ascolta” — o meglio, è incline ad ascoltare.

Dal punto di vista dei Paesi NATO, un’ulteriore iniziativa dovrebbe prevedere la creazione di task force permanenti a livello nazionale per monitorare e pattugliare l’ambiente informativo digitale, in modo da individuare con puntualità attività sospette o pericolose. Al momento, diversi centri e progetti in essere che lavorano sul tema guidati dall’UE e dalla NATO già esistono (es. EUvsDisinfo, Hybrid CoE, StratCom CoE), ma il loro raggio di azione è ancora limitato.

In ultima battuta, ma non per importanza, sostenere la cosiddetta resilienza digitale della società richiede un sistema di istruzione di alta qualità, ma che sia anche il più allargato, accessibile e inclusivo possibile. L’alfabetizzazione all’uso consapevole dei media, così come lo sviluppo di un pensiero critico approfondito, rappresenta la prima linea di difesa sia contro la disinformazione dolosa, sia contro quella involontaria.

L’Alleanza dovrebbe seriamente prendere in considerazione la promozione di programmi specifici legati all’istruzione, in modo da assicurare elevati standard a tutti i suoi Alleati. Anche se di lungo periodo, sarebbe un investimento di sicuro valore nella lotta alle attività tossiche di informazione e nella promozione dei valori transatlantici.

 

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