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Pnrr, la sfida di credibilità passa da giustizia, crescita e capitale umano

Di Angelo Lucarella

Il presidente Draghi ha dato, lucidamente, una indicazione chiara su come i fondi del Pnrr dovranno esser spesi: il termine usato è “bene”. Allora questo richiamo al concetto di bene su cui si è focalizzato non può che legarsi ad un’idea progettuale basata su tre fattori essenziali. L’intervento di Angelo Lucarella, avvocato e vice presidente coord. commissione Giustizia del Mise

Quel che è emerso chiaramente dall’incontro tra Mario Draghi e Ursula von der Leyen dello scorso 22 giugno 2021 è una scommessa sulla credibilità futura del sistema Paese italiano, ma anche sulle capacità del presente.

Il presidente Draghi ha dato, lucidamente, una indicazione chiara su come i fondi del Pnrr dovranno esser spesi: il termine usato è “bene”.

Allora questo richiamo al concetto di bene su cui si è focalizzato l’intervento in conferenza stampa non può che legarsi ad un’idea progettuale che il prof. Draghi stesso ha in mente poiché basata su: giustizia, crescita, capitale umano.

Un quadro delineato su tre fattori essenziali che, in buona sostanza, è la traduzione plastica di come il sistema Paese italiano abbia il dovere di rimettersi in ordine.

È proprio sul primo dei tre fattori, però, che la credibilità futura dello Stivale deve fare i conti imprescindibilmente, indifferibilmente, pregiudizialmente (mi si consenta l’azzardo terminologico).

Sul fronte della giustizia sappiamo, quasi in forma plebiscitaria, come stanno le cose (specie degli ultimi anni): quello dell’ingessamento della giustizia, sia sul fronte politico-istituzionale che della vita reale, non è solo un problema del momento. È un problema Costituzionalmente determinante per le sorti a venire della nostra penisola.

Non sono solo la riforma civile e quella penale che devono interessare tutti noi per far fronte alla sfida del Next Generation, ma soprattutto quella della giustizia tributaria.

All’irragionevole durata dei processi civili (lunghi, angoscianti, dispendiosi all’inverosimile, ecc.) ed all’assurdità del processo penale a vita (data la recente riforma sulla prescrizione) va considerato di intervenire al più presto, appunto, sulla giustizia tributaria; quest’ultima caratterizzata da quotidiane assurdità giuridiche che in uno Stato di diritto cozzano già al menzionarsi.

Il motivo di tale ragionamento è semplice: il cittadino è anche un contribuente. Sicché il rapporto di parità di trattamento, di imparzialità del giudicante e di competenza effettiva di quest’ultimo sono gangli essenziali su cui coltivare una nuova linfa di credibilità del sistema Paese stesso.

Se consideriamo chi oggi può concorrere a formare i collegi di Commissione tributaria (basti leggere gli artt. 4 e 5 del D.lgs. 546/1992) il risultato è presto che tratto: pubblici ministeri, giudicanti di altra formazione e contemporaneo incarico a tempo pieno per altro ufficio pubblico, ex ufficiali di finanza, commercialisti (che, ad esempio, nel percorso di laurea non hanno l’obbligo dello studio delle norme processuali civili complementari a quelle del processo tributario), insegnanti, ingegneri, architetti, geometri, periti, ecc.

Ora, se altrettanto consideriamo quanto la nostra Costituzione prevede con l’avvento della riforma dell’art. 111 (principi di Giusto processo) e della Convezione europea dei diritti dell’Uomo (art. 6) unitamente alla Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione Europea (art. 41), come fa geneticamente il processo tributario italiano a garantire (al netto della genuinità del singolo componente di collegio giudicante) imparzialità totale (se il giudicante stesso del cittadino è, in via precostituita, un collegio nel quale potrebbero esserci soggetti che per ruolo pubblico svolgono la funzione di accusatori data la formazione, l’inclinazione temporale, ecc.)?
E come fa, sempre geneticamente, il processo tributario italiano a garantire competenza in termini di approccio alla materia (se il giudicante del cittadino è un collegio nel quale potrebbero esserci soggetti che nulla sanno della materia a 360 gradi essendo, tra l’altro, il settore tributario tra i più normati, ingolfati e complessi)?

Ed in ultimo ancora, come fa geneticamente il processo tributario italiano a garantire, premesso l’ultimo passaggio sulla competenza, che vi sia capacità effettiva di discernimento (derivante dal concetto di disciplina) sulle questioni legate alla difesa del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione (stando al tenore dell’art. 53 della Costituzione italiana “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”?

Sulla scorta di tale riflessione, quindi, occorre intervenire radicalmente sulla questione della giustizia tributaria ripensando il tutto e partendo, in primis, da un sano rapporto di bilanciamento tra pubblico e privato in termini di vera parità ed eguaglianza davanti ad un giudice che sia quanto più, formalmente e concretamente, terzo, imparziale e (si augura) formato ed assegnato al ruolo di tal funzione in via esclusiva.

Non basta, certamente, solo il presidente Draghi per cambiare il Paese qualitativamente specie sul punto appena trattato perché qualora ci si dovesse rifare alle mere intenzioni illustrate a pagina 68 del Pnrr, allora, saremmo di fronte a una mera strategia di abbattimento del contenzioso; al contrario, nella quotidianità del mondo della giustizia tributaria, il primo step da superare sarebbe, specificamente, capire chi deve gestire e come il complesso sistema normato, epoche e quasi ere politiche fa, bombardato dall’eccitamento giustizialista (ormai ciclicamente riproposto a seconda delle fasi repubblicane).

Ed a tutto quanto sinora detto non si dimentichi il doveroso abbinarsi, in via indissolubile, di una riforma che pur nella complessità di quel che è lo stato dell’arte tributario, si connoti di snellezza ed efficacia per esser quanto più comprensibile agli italiani che, alla fin dei conti, sono sviluppatori di capacità contributiva.

Diversamente si rischia che il processo di riforme (dei mondi della giustizia iscritti a Pnrr), avviato dal Governo Draghi e affidato per buona parte al min. Cartabia, incespichi nei meandri della diversa sensibilità dell’eterogeneo Parlamento attuale. Ma se la sfida è sulla credibilità non c’è più tempo. Occorre fare “bene”.

Occorre che tutti diano il proprio contributo a seconda delle competenze: la sfida che attende tutti implica che il Paese dovrà riconciliarsi proprio con lo spirito della disciplina; quest’ultimo, elemento programmatico-costituzionale nonché funzionale al progresso della nostra società in una dimensione, oggi più che mai, euro-unitaria (financo internazionale). A qualcosa di contrario, sinceramente, non sento di aderire così come spero, almeno, la maggior parte degli italiani.

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