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La “riformetta” anti-trasformisti? Non tocca il cuore del problema

Di Tommaso Edoardo Frosini

Enrico Letta vuole impedire ai parlamentari di saltare da un gruppo all’altro modificando non la Costituzione ma i regolamenti parlamentari. Un’idea apprezzabile, ma se non si interviene sulla legge elettorale, non ci sarà vera democrazia rappresentativa. Il commento del costituzionalista Tommaso Edoardo Frosini, ordinario all’Università Suor Orsola Benincasa

La gerarchia delle fonti del diritto non è solo una teoria che spiega da dove sgorga il diritto e nemmeno la classica domanda all’esame di diritto costituzionale. È anche un ragionamento che viene praticato dalla classe politica. Così riassumibile: riformiamo la costituzione, in subordine approviamo una legge, altrimenti modifichiamo i regolamenti parlamentari. Per innovare le istituzioni, in genere, si ragiona così.

Una gerarchia come ordine di difficoltà applicative: la costituzione è la più complessa, la legge prevede il doppio voto parlamentare, i regolamenti delle Camere si approvano a maggioranza assoluta e ogni ramo del parlamento lo fa per conto proprio. Allora, se la prima non si riesce proprio a fare e la seconda incontra difficoltà di tenuta della maggioranza, si punta alla terza e quindi a modificare i regolamenti parlamentari. Come ha già fatto il Senato nel 2017 e come propone di fare il PD per la Camera dei deputati attraverso un progetto annunciato nei giorni scorsi dal suo segretario.

Certo, è pur vero che i regolamenti impattano sulle istituzioni e ne possono modificare le modalità organizzative. Si tratta, come scrisse un autorevole studioso, di “modifiche tacite della costituzione attraverso il diritto parlamentare”. Nonostante questo, i regolamenti parlamentari non possono essere sottoposti allo scrutinio di costituzionalità, e quindi sono insindacabili. Perché traggono la loro legittimazione direttamente dalla costituzione, che li prevede e li disciplina all’art. 64. Anche se oggi c’è tutto un fermento di potenziali conflitti sollevati dal singolo parlamentare di fronte alla Corte costituzionale, che rivendicano una certa interpretazione e applicazione proprio dei regolamenti parlamentari.

La questione principale, di cui si è fatto portatore il PD con la sua proposta, è quella del trasformismo parlamentare, i cd. “cambi di casacca” in corso di legislatura. In questa, finora, ce ne sono stati ben 259: performance del miglior Tarzan, che saltava di liana in liana. Di solito, il rifugio è nel gruppo misto, oppure nella creazione, tramite un pugno di parlamentari, di un nuovo gruppo parlamentare, che non ha nessuna interfaccia elettorale ma gode delle prerogative (anche economiche) che spettano al gruppo. In effetti, il trasformismo parlamentare c’è da sempre, anche in periodo statutario.

Però ha il sapore della beffa e del tradimento degli elettori. Come non ricordare alcuni parlamentari dell’Italia dei Valori, il partito più tenacemente antiberlusconiano che passarono proprio al gruppo di Berlusconi? Si invocava il libero mandato parlamentare, di cui all’art. 67 cost. Per superare questo ostacolo costituzionale il movimento 5 stelle propose l’abolizione del divieto di mandato imperativo ma la gerarchia delle fonti richiedeva un intervento sulla costituzione volto a smantellare, piaccia oppure no, uno dei capisaldi della democrazia rappresentativa.

Quindi, adesso, si propone di modificare il regolamento della Camera prevedendo che un deputato non possa passare, nel corso della legislatura, da un gruppo all’altro, ovvero al gruppo misto, ma che qualora abbandoni il suo al quale era inizialmente iscritto diventi un “deputato non iscritto ad alcun Gruppo”: come previsto nel parlamento europeo. Restano salve le prerogative ma è prevista la decadenza dalle cariche acquisite in quanto rappresentante del Gruppo di cui non fa più parte, come oggi avviene al Senato.

La proposta, poi, prevede altro: fra cui la costituzione dei gruppi a inizio legislatura, che devono essere corrispondenti alle liste presentate nell’ultima elezione politica. Per evitare che nascano “partiti” in parlamento, sotto forma di gruppi, che non hanno nessun riconoscimento elettorale. Così funziona, per esempio, in Spagna, dove i gruppi devono rispecchiare i partiti che hanno avuto il consenso elettorale. Diciamocelo: l’intento della proposta è apprezzabile, specie in previsione della riduzione dei parlamentari, che ci sarà a partire dalla prossima legislatura. Che impatta sicuramente con i regolamenti parlamentari: si pensi, tra l’altro, ai quorum e alle soglie per l’attivazione di alcune procedure.

La proposta di modifica dei regolamenti parlamentari è una riformetta sebbene, ripeto, apprezzabile. Non lancia il cuore oltre l’ostacolo. Il cuore del sistema istituzionale che si chiama legge elettorale. Puoi anche impedire il passaggio di un deputato da un gruppo a un altro, ma puoi ancora prevedere che i deputati non vengano scelti ed eletti dai cittadini? Non è solo la formula elettorale, che personalmente auspicherei maggioritaria, ma è la modalità elettiva per il tramite di liste bloccate. Si proponga, in maniera ferma decisa, il collegio uninominale, dove gli elettori possono conoscere, giudicare e decidere se votare i propri candidati nel territorio, che saranno strettamente legati a un gruppo politico. Questa è vera democrazia rappresentativa.

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