Chi da tempo lavora nell’energia in Italia ha imparato che tutte le questioni sono molto difficili. Chi poi ha attraversato anche la vicenda del nucleare negli anni ´80 spesso non resiste alla tentazione di affermare che per noi il nucleare è una questione del tutto fuori portata, da Paesi ricchi, roba troppo complessa. Molti prestigiosi nuclearisti, che nel 1987 sostennero strenuamente il nucleare, oggi sono diventati tristi e disillusi pessimisti e sottolineano l’inutilità e, soprattutto, l’impossibilità di fare il nucleare da noi. Sembra che siano stati contagiati dalla diffusa malattia del criticare tutto ciò che ha elementi di complessità e che, pertanto, si presta a facili, a volte superficiali, critiche: siano queste le rinnovabili e i loro incentivi, le linee elettriche con le loro radiazioni, il carbone con la sua CO2, il petrolio con i suoi prezzi, il gas con la Russia.
Che l’Italia sia uscita dal nucleare è paradossale, che voglia rimanerne fuori lo è altrettanto. Questo è il Paese dove è nato lo sfruttamento pacifico del nucleare, quello dove cominciò a lavorare Enrico Fermi, premio Nobel proprio per i suoi studi sui reattori civili. È il Paese della fisica moderna di Galileo Galilei. Magra consolazione è il fatto che anche lui aveva parecchi problemi nel far passare le sue idee, come se allora, in maniera simile ad oggi, il nostro Paese fosse segnato da una generalizzata paura della modernità.
Senza andare così lontano nel tempo, la differenza rispetto a 25 anni fa è che attualmente l’Italia fa parte di un sistema energetico ed economico internazionale sempre più interconnesso grazie, o a causa, della globalizzazione. Fra l’altro la nostra economia è sempre stata orientata all’interscambio con l’estero, per effetto delle alte importazioni di materie prime energetiche e per il fatto che siamo un Paese manifatturiero che esporta molto all’estero. Le nostre imprese energetiche hanno conosciuto il cambiamento delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, con l’effetto positivo che sono diventate grandi gruppi internazionali, o lo sono diventate di più nel caso di Eni. Il mantenere l’Italia isolata dal generale contesto internazionale che vede tutte le principali economie industriali presenti sulla tecnologia nucleare è indicativo di debolezza.
Proprio dall’internazionalizzazione della nostra economia occorre partire per capire i benefici. L’Italia è ancora un Paese che poggia sull’industria, il cui Pil, seppur in calo, vale ancora il 25% del totale, mentre quello del tanto amato turismo non supera il 5%. I benefici maggiori, e più immediati, degli investimenti in centrali nucleari li avrebbero quelle centinaia di imprese della metalmeccanica che dovrebbero costruire i tubi, le flange, le valvole, le caldaie, i fili delle centrali nucleari e anche le strutture civili. Queste sono le imprese che più esportano nel mondo e quelle che ora hanno bisogno di stabilità degli investimenti per continuare a rafforzarsi e a cogliere quote di mercato sul mercato mondiale. Si tratta di una scelta di politica industriale, prima ancora che di politica energetica, su cui tutti dovrebbero convenire.